martedì 24 aprile 2018

SULLE ORIGINI DEL LINGUAGGIO (secondo me) - PRIMA PARTE

Treccani, l’enciclopedia on line, definisce la linguistica come scienza del linguaggio. Per Wikipedia, che si affida alla linguista americana Carol Genetti, la linguistica è la disciplina scientifica che studia il linguaggio umano. Poiché la linguistica, a parer mio non è in grado di effettuare predizioni, userei  il termine scienza con grande prudenza pur non esitando a inserirla tra le cosiddette Scienze umane



Tuttavia, non v’è dubbio che tale disciplina utilizzi anche metodi e strumenti prettamente scientifici, anche sperimentali, nell’analisi delle lingue e nello studio del linguaggio. Basti pensare al pionieristico approccio cibernetico (la cibernetica della mente) adottato da Silvio Ceccato (Silvio Ceccato. Cibernetica per tutti. Feltrinelli, 1968) assieme a molti altri, tra cui Ernst von Glasersfeld, Vittorio Somenzi, Renzo Beltrame, Giuseppe Vaccarino (per una approfondita e alquanto articolata discettazione sull’argomento vedi: Felice Accame. Il linguaggio come capro espiatorio dell’insipienza metodologica. Odradek, 2015). Molti altri, in tempi più recenti, hanno adottato strumenti scientifici e sperimentali per comprendere l’origine e le basi neurobiologiche del linguaggio (vedi per esempio: Andrea Moro. Lingue impossibili. Raffaello Cortina, 2017).
Questa lunga premessa, in cui esplicito come la scienza flirti spesso e volentieri con la linguistica, mi fornisce la giustificazione formale necessaria per poter parlare del linguaggio in questo blog. Non essendo un professionista della materia, quelle che esprimo sono pure opinioni personali di un dilettante e come tali vanno prese.

A queste opinioni personali dedico due post. Il primo (questo) è una riflessione di tipo analogico nella quale cerco le origini del linguaggio in quella sorta di sintassi naturale (sintassi è parola di origine greca che significa "associazione”, “ordinamento) che consente all’uomo (ma anche a molti animali) di mettere ordine in tutto ciò che – del mondo esterno o di quello interiore – giunge al livello della coscienza attraverso le esperienze sensoriali e si trasforma, per esempio, in progetto, intenzione, azione. 
Il post successivo cercherà una dimostrazione fattuale delle opinioni espresse in questo primo post attraverso qualche riflessione a proposito del primo utensile mai costruito dall’uomo: l’amigdala (pietra scolpita, chopper, selce scheggiata).
Il primo post è già stato pubblicato all’interno di un gruppo chiuso di Facebook dedicato al pensiero complesso (AIEMS - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche). Poiché molti amici che mi seguono su DOVEOSANOLEGALLINE non frequenta Facebook, riproduco qui di seguito il post in oggetto. Il post sull’amigdala verrà pubblicato tra una settimana circa.


SINTASSI E RAGIONAMENTO INTUITIVO (pubblicazione originale al LINK)

A metà dell’Ottocento s’era discusso così a lungo, e in modo tanto vano, dell’origine del linguaggio che, nel 1866, la Società di Linguistica di Parigi aveva vietato in modo assoluto ai propri soci di discutere ulteriormente della questione. Tuttavia non abbiamo desistito e siamo ancora qui a farlo, con mille bellissime ipotesi e ben poche certezze.
Qui e ora, ne discuto da profano perché non ho competenze in nessuno dei settori teoricamente implicati nella questione. Vorrei solamente, in questa sede, porre l’ipotesi che il linguaggio, nella sua doppia funzione comunicativa e cognitiva, sia legata in qualche modo a tutte le nostre funzioni sensitive, in particolare la vista, considerata anch’essa nella sua doppia natura percettiva e cognitiva.
Partirei dal concetto di ragionamento intuitivo”, quello che si fa senza necessariamente utilizzare il linguaggio. Gli umani che perdono le funzioni linguistiche per colpa di ictus, non cessano di pensare. Gli animali, che sono privi di linguaggio e di tutte le sue proprietà simboliche e semantiche, a loro modo pensano: vedono, ricordano, mettono in relazione scene visive e sensazioni, pianificano azioni, le eseguono, ne valutano i risultati arricchendo l’archivio di esperienze da utilizzare in occasioni successive. Tutto ciò senza bisogno di parole. Gli animali, probabilmente, non sono in grado di gestire molti concetti astratti ma di alcuni, strettamente legati alla fisicità e alla corporeità, hanno certamente coscienza. Tra questi, la paura o alcune forme di gioia (pensiamo per esempio a un cane che gioca).
Detto ciò, ecco il mio pensiero. Nel ragionamento intuitivo noi pensiamo per immagini mentali corrispondenti alle percezioni sensoriali e alle sensazioni emotive accumulate con l’esperienza. Le percezioni sensoriali derivate dai nostri cinque sensi (e quelle emotive di origine interna) entrano in archivi specifici localizzati in diverse aree cerebrali, tutte altamente interconnesse a formare un unico data-base di esperienze. Di volta in volta, a ciascuno di questi elementi stoccati in archivio, a ciascuna di queste immagini mentali, possiamo attribuire (come fanno anche gli animali) funzioni indicali, oppure funzioni strettamente simboliche: quest’ultima prerogativa pare essere esclusiva della specie umana. Col ragionamento intuitivo, attingendo alla memoria organizziamo le immagini mentali in pensiero. Dette immagini possono essere allineate in sequenze lineari, oppure su diversi piani temporali, e in modo altamente ricorsivo. Per organizzare tali immagini usiamo anche grammatiche e sintassi perché il significato delle sequenze mentali dipende - almeno in parte - da come i singoli elementi vengono disposti nella sequenza e da come si correlano tra loro. Questa è, in parole molto povere, l’idea generale di pensiero per immagini mentali. 



Descritto il pensiero intuitivo in questo modo, le analogie col linguaggio sono evidenti. La semantica, la pragmatica, l’inferenza, e altre proprietà sono già contenute in questa idea di processo mentale. L’integrazione tra il tutto, affinché questo costituisca un sistema funzionale altamente efficiente, è dato dalla connettività tra i diversi archivi. Questa connettività è assicurata dai cosiddetti fasci connettivi che compiono miracoli, là nella nostra scatola nera, incluso il miracolo della coscienza. In certi casi, una connettività “esuberante” può portare a quegli affascinanti fenomeni di sinestesia, dove i vari sensi si mescolano: i suoni evocano colori, i colori evocando sapori, questi evocano sensazioni tattili e così via. Nell’uomo – come sia avvenuto non si sa (e forse non ha molta importanza saperlo) – là dove esistevano solamente associazioni tra immagini mentali, azioni, situazioni, sensazioni, ecc., a tutto ciò alcune aree del cervello hanno associato suoni (versi, fischi, mugolii e, infine, parole). Le parole sono diventate il veicolo di significati concreti, astratti, indicali, simbolici, metaforici, ecc.: ecco il linguaggio. Una volta nato, questo si è evoluto consentendo lo sviluppo della più straordinaria capacità comunicativa presente sul nostro pianeta, e l’uso cognitivo che ne sappiamo fare ci ha trasformati in una specie sapiente. E così l’uomo è stato dotato di uno strumento che gli consente di filosofeggiare. Il mio cane non ne è capace … ma il mio gatto, a volte, sembra saperlo fare benissimo.
   


sabato 21 aprile 2018

DOMANDE E RISPOSTE SULL'EVOLUZIONE - IX^ parte

In questa nona puntata di Domande e Risposte sull’Evoluzione, il tema in discussione è quello della lotta per la sopravvivenza ovvero, nella sua trasposizione in termini economici e culturali, della libera concorrenza, aspetto fondativo dell’economia liberale e oggetto di vivace dibattito ai tempi di Darwin. Come nelle puntate precedenti, la discussione intende mettere a confronto il potenziale evoluzionistico del fattore biologico e quello eventuale del fattore culturale.


Domande e Risposte
# 15

Domanda 15. Le concezioni sociali e sociodinamiche di Malthus ebbero una grande influenza sulla genesi dell’idea darwiniana di selezione naturale. Ricordo che nel Saggio sulla Popolazione e sui suoi Effetti sul Perfezionamento Futuro della Società (1798), Thomas Malthus aveva constatato l’inadeguatezza delle potenzialità di implementazione delle risorse alimentari a fronte dell’andamento della crescita della popolazione umana. Malthus aveva concluso sostenendo che è proprio la disparità tra le due dinamiche a provocare povertà, carestie, pestilenze e guerre che determinano ricorrenti e massivi decrementi della popolazione umana. Lo spirito malthusiano pervade certe aberrazioni sociobiologiche e/o interpretazioni del pensiero darwiniano (ma non giustificate peraltro dalle affermazioni di Darwin). Tali aberrazioni, a loro volta, sono pervase più da pregiudizi sociali che non da nozioni scientifiche provenienti dalla ricerca evoluzionistica e da quella sociologica. Quanto delle idee malthusiane permangono nell’evoluzionismo contemporaneo? Se permangono, rappresentano un elemento di disturbo nei tentativi di chiarire i meccanismi biologici dell’evoluzione dell’uomo, o rappresentano un elemento di chiarezza, che individua la rilevanza degli elementi culturali squisitamente antropologici (che si aggiungono a quelli puramente biologici) nel determinare la selezione e l’adattamento di individui e di gruppi più o meno omogenei di individui?
 



Risposta 15. 
Cito letteralmente un passo dalla Storia della Filosofia Occidentale di Bertrand Russell (in traduzione italiana, Longanesi, 1958, pag. 1133): Il darwinismo consisteva in un’applicazione a tutta la vita animale e vegetale della teoria della popolazione di Malthus, che era parte integrante della politica e dell’economia dei benthamisti: una totale libera concorrenza, in cui la vittoria andava agli animali che rassomigliavano di più ai capitalisti fortunati.[1] Darwin stesso fu influenzato da Malthus, ed aveva simpatia, in generale, per i filosofi radicali. C’era, tuttavia, una gran differenza tra la concorrenza auspicata dagli economisti ortodossi e la lotta per l’esistenza che Darwin proclamò forza motrice dell’evoluzione. Libera concorrenza’, nell’economia ortodossa, è una concezione assai artificiale, protetta da restrizioni legali. Potete vendere a prezzo minore di un vostro concorrente, ma non potete ucciderlo. Non dovete adoperare le forze armate dello Stato per aiutarvi ad ottenere i migliori manufatti stranieri. Coloro che non hanno la fortuna di possedere capitali non devono cercare di migliorare la loro sorte con la rivoluzione. La libera concorrenza’, così come era intesa dai benthamisti, non era realmente libera”.     


Anche se Russell insinua che, almeno tardivamente, Darwin, che era un liberale, si trovò con la sua idea della sopravvivenza del più forte più vicino alle teorie di Nietzsche che a quelle di Bentham, la moderna genetica ha fatto piazza pulita del cosiddetto darwinismo sociale. Come scrisse Theodosius Dobzhansky nel suo L’evoluzione della Specie Umana (in traduzione italiana, Einaudi, 1965, pag. 15) il più adatto non è necessariamente un tipo romantico o un conquistatore vittorioso o un superuomo. È più probabile che sia solo un genitore prolifico”. In effetti, quello che conta non è tanto per gli esseri viventi essere in grado di sopraffare altri viventi, ma la capacità di riprodursi e lasciare discendenti adatti a fronteggiare le sfide dell’ambiente. Perciò, si può dire che il più adatto non è il più forte, ma il più resistente. Mi pare che proprio i limiti indicati da Russell a proposito della libera concorrenza siano un chiaro esempio di come l’evoluzione culturale si è sviluppata su linee autonome e non si presti a forzature tratte dalla evoluzione biologica.



[1] Jeremy Bentham (1748-1832), giurista ed economista inglese. È stato uno dei maggiori esponenti dell’utilitarismo filosofico (la maggiore felicità del maggior numero di individui), sostenitore di processi sociali e economici idonei a creare l’armonia più ampia possibile fra gli interessi collettivi e quelli individuali. 

domenica 15 aprile 2018

DOMANDE E RISPOSTE SULL'EVOLUZIONE - VIII^ parte

In questa puntata di Domande e Risposte sull’Evoluzione, la questione riguarda l’interconnettività simultanea (Internet e simili) e l’eventuale ruolo che essa, considerata eventualmente come un fenotipo emergente della specie umana, potrebbe avere sull’evoluzione della specie. Nella sua risposta, il Professor Rugarli attinge, tra le altre cose, alla metafora fantascientifica uscita dalla penna e dalla mente di HG Wells.



Domande e Risposte
# 14

Domanda 14. L’interconnettività simultanea (telefonia cellulare, internet) rappresenta una forte accelerazione dei processi di trasmissione dell’informazione. All’origine della storia dell’uomo, l’informazione veniva trasmessa da uomo a uomo con la velocità del passo umano, poi con quella del cavallo (pony express), poi con quella del telegrafo, poi con quella delle onde elettromagnetiche. Oggi la velocità di trasmissione dell’informazione rasenta l’istantaneità. Il fenomeno si discosta poco da quella che si potrebbe verificare mediante l’interconnessione telepatica tra individui interagenti. Per certi aspetti, la possibilità dell’invio simultaneo dell’informazione a un numero pressoché infinito di soggetti interagenti fa sì che la comunità umana possa essere considerata come un unico essere multicellulare (multi-individuale) come una colonia di organismi o come un organismo ameboide, dove la risposta ad uno stimolo si può trasmettere istantaneamente a tutto l’organismo, il quale può rispondere in modo altrettanto istantaneo e perfettamente coordinato. Questa novità culturale è da considerare una manipolazione dell’ambiente (un ambiente in cui l’informazione corre più veloce) oppure una modificazione della specie (che acquisisce potenzialità di comportamento in precedenza non così sviluppate)? Nell’un caso o nell’altro, l’interconnettività istantanea può essere considerata alla stregua di un fenotipo nuovo della specie umana da cui ci si può attendere qualche conseguenza di carattere selettivo o adattativo? 



Risposta 14. Dal punto di vista dell’evoluzione culturale, la straordinaria rapidità di comunicazione tra gli umani è l’equivalente di una elevatissima capacità riproduttiva tra gli individui nell’evoluzione biologica. Questo favorisce i cambiamenti rapidi, ma non solo quelli che potremmo definire buoni. In campo biologico una riproduzione molto rapida è, per esempio, quella delle cellule cancerose. È vero che queste non lasciano discendenza, ma interferiscono pesantemente con la sopravvivenza e la riproduzione di organismi complessi. Mi azzardo a dire che la rapidità di comunicazione interpersonale che caratterizza la società umana attuale rende il panorama culturale sicuramente più vario, ma non necessariamente migliore, e sicuramente è all’origine di un certo imbarbarimento intellettuale dell'umanità contemporanea. Perciò, non sono d’accordo nel considerare la specie umana, come dice la domanda, come una colonia di organismi pronta a rispondere a uno stimolo in maniera coordinata. Tuttavia, c’è di buono che la rete rende più difficile la manipolazione delle idee da parte di coloro che, in un luogo, controllano i mezzi di comunicazione di massa, come è avvenuto tempo fa in Iran e come avveniva, per tradizione, nel linguaggio cauto dei potenti della terra, smascherato da Julian Assange con Wikileaks.


Ma c’è un altro problema da considerare, e cioè se questo avanzamento tecnologico, che include l'istantaneità della comunicazione, non sia la prosecuzione dell'evoluzione biologica della specie umana con altri mezzi, come affermato da Francesco e Luigi Cavalli Sforza in un articolo su La Repubblica di qualche anno fa (16 gennaio 2010). A parte il fatto che anche l’avanzamento tecnologico è un frutto dell'evoluzione culturale, non vedo come questo possa modificare le caratteristiche somatiche della specie umana. 

La guerra dei mondi in un'illustrazione  di Alvim Corrêa

Nel 1898 Herbert George Wells scrisse il romanzo La guerra dei mondi, nel quale immaginò la terra invasa da invincibili marziani, fatti solo di un immenso cervello imprigionato in una macchina capace di muoversi su ogni terreno e di emettere un raggio letale. Se Wells fosse stato più darwiniano avrebbe dovuto riconoscere l’impossibilità dell’evoluzione di una specie vivente con le caratteristiche dei suoi marziani, che sarebbe dovuta discendere da innumerevoli generazioni di individui accoppiati preferenzialmente in base a un cervello grande e alla atrofia del corpo, fino a essere tutto cervello e niente del resto. Ma, tra il resto, ci sono anche gli organi della riproduzione, per non parlare del sistema immunitario. Infatti, nel romanzo di Wells i marziani sono sterminati, e la terra è salvata dai microbi, contro i quali gli extraterrestri non hanno alcuna difesa. È vero che un fanatico della fantascienza potrebbe ribattere che i marziani erano arrivati a questo stadio di sviluppo non con i meccanismi evolutivi in atto sulla nostra terra, ma grazie a manipolazioni di una tecnologia che nessun terrestre è in grado di immaginare. Ma arrivare a questa tecnologia presuppone un’evoluzione culturale che implica la libertà, ed è dubbio che, anche su Marte, la massa degli abitanti capaci di questa evoluzione avrebbe accettato la rinuncia ai piaceri del sesso in base alla libertà di scegliersi il partner. Da ciò deduco che dovunque, nella immensità dell’universo, esista una specie intelligente come quella umana, l’evoluzione biologica e quella culturale sono avvenute (anche se con risultati eventualmente differenti) con meccanismi simili a quelli validi per noi e che non possono essere violati. Perciò tranquillizziamoci: 
per quanto possa avanzare il progresso tecnologico, non diventeremo come i marziani di Wells,    


sabato 7 aprile 2018

DOMANDE E RISPOSTE SULL'EVOLUZIONE – VII^ parte

In questa settima puntata di Domande e Risposte sull’Evoluzione si affronta il tema dei rapporti tra adattamento al territorio, evoluzione biologica ed evoluzione culturale, nell'ipotesi che eventuali differenze tra diversi gruppi umani possano trovare origine nell'adattamento a territori differenti. È un tema, questo, che porta ai più che discutibili costrutti riguardanti “razze”, geni, e cultura: un tema che – in auge durante il periodo colonialista – richiamato da nuovi razzismi striscianti sta ricomparendo nel dibattito pubblico, a causa dei sommovimenti migratori in atto.

Domande e Risposte
# 13

Domanda 13. In questa serie di trenta domande si fa implicitamente riferimento al quadro di un evoluzionismo darwiniano caratterizzato dalla selezione operata dall'ambiente, in tempi molto lunghi, sugli individui, e sul fatto che le varietà più adattate a un certo particolare ambiente possano trasformarsi, a lungo andare, in specie autonome.

In questo contesto concettuale ci si potrebbe chiedere: "Quanto dell’originale impostazione darwiniana è rimasta nelle moderne correnti del pensiero evoluzionistico?". "Quanto l’idea originale di Darwin, e quanto le concezioni evoluzionistiche più attuali, possono contemplare gli elementi culturali tra i fattori selettivi o adattativi rilevanti ai fini di una evoluzione dell’uomo?". E ancora: "Fino a che punto gli elementi culturali possono essere visti come fattori adattativi rilevanti a determinare, in certi tempi e in certi luoghi, il prevalere di alcune varietà umane su altre?". 
Mi piace ricordare, a questo proposito, il bel saggio (premio Pulitzer) dell’antropologo Jared Diamond: Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Einaudi, 2005). In questo saggio Diamond afferma che il prevalere di alcune società umane su altre (per esempio gli spagnoli sui popoli dell’America centromeridionale dopo la spedizione di Cristoforo Colombo) non ha nulla a che vedere con la genetica o con l’intelligenza, ma ha a che vedere con l’adattamento delle popolazioni a cogenti limiti del territorio: geografici, orografici, e di risorse. Sono state (soprattutto in passato, ma possono tuttora essere) le caratteristiche dell’ambiente a determinare tempi, modalità e direzione dello sviluppo tecno-socio-culturale nelle diverse varietà umane.

Cristoforo Colombo e i nativi

Risposta 13. Quando Darwin espose le sue teorie non erano noti i meccanismi della ereditarietà. Perciò, la più importante trasformazione del pensiero evoluzionistico è avvenuta con il cosiddetto neodarwinismo, che ha spostato dal soma ai geni i soggetti dell’evoluzione e ha individuato nelle mutazioni l’origine della variabilità sulla quale si esercita la selezione. Non sono un esperto della materia, ma mi pare che questo sia il più importante cambiamento del pensiero originale di Darwin, mentre non credo che l’esistenza di correnti differenti del pensiero evoluzionistico moderno metta in discussione l’impostazione propria del darwinismo e del neodarwinismo.

So bene che l’esistenza di interpretazioni differenti dei meccanismi dell’evoluzione biologica è sfruttato dai fautori del creazionismo per contestare tutta la teoria. Qualche tempo fa, si è tenuto in Italia un convegno, intitolato più o meno Verso il tramonto di una ipotesi”, promosso da una persona autorevole in campo accademico e dichiaratamente ostile alla teoria dell’evoluzione biologica, il quale al tempo del convegno era vice-presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Sarebbe perciò il caso di definire meglio la distinzione tra un’ipotesi e una teoria. A mio parere un’ipotesi è un atto immaginativo non ancora sottoposto a tentativi di falsificazione, mentre una teoria è un atto simile che ha resistito a vari tentativi di falsificazione, che è precisamente la connotazione che Karl Popper ha individuato per le teorie scientifiche [nota: Popper usa il termine "falsificare" nella accezione di "confutare sulla base di nuove prove"]. Ne consegue che le tutte le teorie scientifiche non sono verità eterne, e potrebbero sempre essere falsificate da osservazioni o esperimenti che possono aver luogo nel futuro. Perciò, considerare solo la teoria dell’evoluzione biologica come provvisoria e declassarla al ruolo di ipotesi è una scorrettezza epistemologica. Si aggiunga che il creazionismo non è falsificabile in linea di principio e perciò non può essere considerato una teoria scientifica
Molti di questi critici trascurano le recenti scoperte della biologia molecolare che, dalla omologia di molecole proteiche e di patrimoni genetici tra le specie oggi esistenti, hanno potuto ricostruire il tempo più o meno remoto nel quale i loro precursori si sono separati. Da questo punto di vista l’evoluzione si è trasferita dagli organismi interi alle molecole di cui sono fatti. È proprio del linguaggio biologico moderno dire che una molecola si è più o meno “conservata” a seconda che sia più o meno diversa in specie differenti. Per fare un esempio attinente agli interessi scientifici che coltivo, negli anni recenti sono stati scoperti sulle cellule presentanti gli antigeni ai linfociti dei recettori che sono stati chiamati Toll-like receptors perché hanno strette omologie con la molecola Toll, che fu dimostrata nel 1985 nella Drosophila, un moscerino molto impiegato negli studi genetici del passato. L’idea che la Drosophila e i mammiferi, incluso l’uomo, abbiano delle strutture molecolari simili, e perciò molto conservate, è in accordo con l’origine comune in tempi remotissimi tra specie tanto diverse. Perciò, l’idea di una evoluzione biologica determinata dalla selezione di eventi casuali, come mutazioni, ricombinazioni e duplicazioni genetiche è perfettamente plausibile (tutti eventi per i quali l’esperienza ha dimostrato che possono avvenire in natura solo per caso). Io credo che sia questo il nucleo duro della teoria biologica al quale aderiscono anche scienziati con idee molto diverse, come Richard Dawkins e Stephen Jay Gould, le cui controversie si pongono entro e non pro o contro questo nucleo.

Drosophila

La domanda, però, non implica solamente la coerenza del pensiero evoluzionistico moderno con l’impostazione originale di Darwin, ma anche la possibilità che questo pensiero (biologico) debba includere le sue implicazioni culturali e che le peculiarità della evoluzione culturale abbiano avuto conseguenze … ai fini dell’evoluzione dell’uomo o, più verosimilmente … come elementi co-determinanti alla prevalenza (territoriale o universale) di alcune varietà umane su altre”. In una parola, se ho capito bene, la domanda è se vi sia una reciproca influenza del biologico sul culturale e del culturale sul biologico.

Per quanto riguarda la seconda possibilità in campo umano, mi sono già espresso precedentemente, quando ho parlato della influenza di modelli culturali sui matrimoni e sulla progenie che ne deriva, anche se ho escluso che questo possa condurre alla comparsa di nuove specie umane. Più importante è discutere sulla prima possibilità, ossia che l’evoluzione culturale sia stata originata grazie ad assetti genetici che la favorivano. Che questo sia avvenuto alla origine della nostra specie è di per sé evidente. È chiaro che senza cervello non è possibile avere idee e che la specie umana si è evoluta soprattutto nella struttura del cervello. Ma il punto in discussione è precisamente la prevalenza territoriale o universale di quelle che nella domanda sono chiamate varietà umane e che io preferirei chiamare popolazioni. Ossia, sono queste popolazioni prevalenti o meno perché dotate di patrimoni genetici differenti, che le hanno rese più o meno intelligenti?
Su questo punto occorre essere cauti. Il banale buonsenso ci dice che, tranne che in circostanze estreme, come nel caso di menomazioni ereditarie o di esseri superdotati, quello che è dovuto alla variabilità genetica è di secondaria importanza in un essere umano. Non dubito che essere belli o brutti, qualità per le quali la genetica ha la sua importanza, non sia rilevante, soprattutto per una donna. Ma forse è più importante essere più o meno intelligenti. Naturalmente, su questo punto non mancano coloro che sostengono con passione che l’intelligenza è prevalentemente se non esclusivamente ereditaria. Si tratta per lo più di persone con una certa propensione al razzismo e che danno per scontato che essi stessi sono tra i fortunati che hanno ereditato una intelligenza elevata. Ma, pur non disconoscendo un ruolo della genetica nelle attitudini di una persona, anche in quelle intellettuali, per non parlare di quelle artistiche, io credo che questo da solo non basti a definirne la sua unicità. Che dire, infatti, della bontà o di altre qualità morali? Anche queste sarebbero geneticamente determinate?  Un essere umano, una persona, è definito da una tale complessità di qualità, che attribuire la sua unicità alla genetica significa privarlo del privilegio della cultura, ridurlo alle condizioni di una animale senza storia.

Intelligenza e tipi umani: la visione colonialista tra Settecento e Ottocento

Non è un caso che, nella ricerca scientifica con modelli animali si impieghino ceppi di topi o ratti “inbred”, discendenti da ripetuti accoppiamenti tra fratello e sorella, fino ad avere individui tutti geneticamente identici. Che un topo “outbred” abbia una individualità genetica è ammissibile, ma a livello della sua vita animale. Ma mi rifiuto di credere che questo valga anche per l’uomo. Negli ultimi tempi in cui facevo il primario, salendo le scale, mi occorreva di incontrare un uomo anziano, chino a strofinare i gradini alla pulizia dei quali era dedicato il suo lavoro. Non so nulla di quell’uomo, ma ritengo poco probabile che avesse il tempo e la voglia di dedicarsi ad attività intellettuali. Forse era migliore di me sul piano morale, ma è certo che era infinitamente inferiore sul piano sociale, con tutte le conseguenze che questo comporta. Questo dipendeva forse dal diverso patrimonio genetico di noi due, io professore universitario e primario e lui uomo delle pulizie, o dipendeva al contrario dalle diverse opportunità di educazione e di studio che avevamo avuto, per le quali io ero stato fortunato e lui no?
Per concludere, sono dispostissimo ad ammettere che la selezione di patrimoni genetici differenti sia stata favorita in popolazioni sottoposte a diverse condizioni ambientali, per esempio la pelle scura per chi vive ai tropici e altre caratteristiche, per esempio un aumento del rapporto tra massa e superficie corporea, per chi vive in climi freddi, ma mi rifiuto di credere che questo influenzi l’evoluzione culturale. Come ho già detto, la sua propagazione è orizzontale e richiede solo la comunicazione, e non ha niente a che vedere con la trasmissione di geni. L’importante è che con l’evoluzione si siano sviluppate certe capacità intellettuali, ampiamente diffuse negli umani, che hanno reso possibile, per puro caso, la scintilla che ha dato origine all’evoluzione culturale. Se diverse popolazioni hanno sviluppato culture differenti è per la loro segregazione geografica e non per i loro pur differenti patrimoni genetici.


lunedì 2 aprile 2018

IL MINISTERO DELLA VERITÀ

Chi ha letto 1984 di George Orwell o chi si fosse imbattuto – chissà come – nel mio Non fare troppe domande, sa bene di che cosa si parla quando si nomina il Ministero della Verità (o Miniver, nella neolingua orwelliana). Il Ministero della Verità ha sede in una enorme piramide di cemento. Sul suo frontone si legge: La guerra è pace, L'ignoranza è forza, La libertà è schiavitù.


Nella creazione di Orwell, chiunque sia sospettato di pensare in modo non ortodosso viene arrestato. Al malcapitato viene applicata la damnatio memoriae: di lui viene rimossa ogni traccia, ogni ricordo individuale o collettivo.

Compito del Ministero della Verità – omettendo quel che c’è da omettere, modificando quel che c’è da modificare, falsificando quel che c’è da falsificare, inventando quel che c'è da inventare – è riscrivere in continuazione le notizie di cronaca, i giornali, gli archivi, i libri di storia, e tutto ciò che appartiene alla comunicazione e alla trasmissione della cultura, testi letterari compresi. Tutto ciò, al fine di rendere tutti i documenti perfettamente in linea con l’ideologia e con gli scopi attuali del partito (quello al potere, si intende). Un compito immane. Orwell immaginava che per realizzare tutto ciò fosse necessaria un’enorme organizzazione: il Ministero a ciò adibito era costituito da migliaia di stanze gremite di migliaia e migliaia di addetti. Ciò che per Orwell rappresentava uno sforzo organizzativo colossale, grazie all’attuale possibilità di digitalizzazione di documenti e di immagini è reso alla portata quasi di chiunque. 

L’articolo intitolato Videomanipolazione: La realtà è ciò che sembra, che Massimo Gaggi pubblica su La Lettura di questa settimana (#331, 1° aprile 2018, p. 11), tratta proprio di questa neonata facilità di poter agire sulla matrice dei "fatti", manipolandoli a proprio piacimento. “I tentativi di alterare le rappresentazioni della realtà dei fatti sono vecchi come il mondo”, afferma Gaggi, ma oggi manipolare i “fatti” è diventato così semplice che rischiamo di essere travolti da una crisi di disinformazione planetaria”. Questa è l’autorevole opinione di Aviv Ovadya che dirige lo staff tecnologico del Centro per la Responsabilità delle Reti Sociali dell’Università del Michigan: egli si riferisce a tale spettro definendolo 

INFOCALYPSE 

Falsificare in modo credibile documenti, immagini, filmati, tracce audio e così via sta diventando sempre più facile e le “APP” a ciò dedicate si diffondono a macchia d’olio, consentendo a chichessia di inventare “fatti” di sana pianta, di "cancellare" persone, di modificarne i discorsi o i profili sociali. Se ciò può essere fatto per gioco da qualsiasi stupido, pensiamo fin dove possono arrivare disinvolti istituti tecnologici al soldo delle cattive idee. La manipolazione dell’informazione è diventatata così pervasiva da rendere ormai fortemente sospetto il risultato di qualunque consultazione democratica: elezioni politiche, di governi, di capi di stato. È sempre stato così, si dirà! È vero, ma oggi gli strumenti di manipolazione che erano al servizio di pochissimi potenti (e come tali più facili da sorvegliare) stanno diventando sempre più “democratici”, vale a dire a disposizione di molti e, pertanto, molto più complicati da tenere sotto controllo.   


C’è grande preoccupazione nel mondo per questa situazione dagli sviluppi imprevedibili in cui il vero e il falso diventano difficilmente distinguibili. Istituzioni politiche, istituti di informazione, esperti di tecnologie informatiche, lanciano l’allarme e, ovunque nel mondo, si incontrano in vari brainstorming per cercare soluzioni che, però, sono ben lontane dall’essere individuate. Che fare, dunque?
Nell’attesa che i cervelloni trovino improbabili soluzioni a problemi che altri cervelloni (o forse gli stessi?) hanno contribuito a provocare, dovremo cercare in noi stessi – individui e collettività organizzata – soluzioni non informatiche al problema: dovremo cercarle nell’uso del nostro stesso cervello, rendendolo più selettivo, meno prono e più critico ai flussi di informazione che ci arrivano dall’esterno. È una questione che deve essere affrontata, credo, agendo sulla formazione e sulla cultura, o meglio ancora, sulla formazione alla cultura e alla competenza.

Chi non conosce la Storia, è facile vittima dei falsi storici; chi non conosce le Idee, la loro origine e i portatori di idee, è vittima predestinata dei falsi ideologici. Bisogna sapersi dotare – e in questo la scuola dovrebbe ripensare se stessa – degli strumenti per imparare a conoscere, per imparare a distinguere. Ma la scuola, da sola, non basta: ognuno ha la responsabilità personale di allevare se stesso. Se non lo fa, rischia una pena severa: essere burattino credendosi libero. È necessario liberarsi dal terribile inganno di uno è uguale a uno”. Ci servono punti di riferimento saldi, cose e persone su cui riporre fiducia, cose e persone su cui costruire il nostro conoscere e il nostro saper distinguere: per far ciò è necessario riconoscere il valore della competenza e del sapere autentico. Se non vogliamo essere costantemente ingannati, dobbiamo cominciare a riflettere su noi stessi e a come vogliamo attrezzarci per essere autenticamente liberi”.