sabato 30 settembre 2017

IL METODO SCIENTIFICO (seconda parte)

Nel post precedente s’è parlato dello scopo dell’agire scientifico, di Weltanschauung (visione del mondo), di scienze dure e molli. Ci si è domandati in quale rapporto queste cose stiano con il metodo scientifico e si è iniziato un percorso ricognitivo per comprendere meglio in che cosa consista il metodo scientifico e se questo sia effettivamente lo strumento che consente di discriminare tra ciò che è scienza e ciò che non lo è. 

Alla fine del precedente post s’era parlato del metodo induttivo e s’era constatato – con la storiella del tacchino induttivista – che il metodo principe dell’agire scientifico ha anch’esso i suoi limiti. Qui si riprende l'analisi di quello che, con termine generico, si chiama Metodo Scientifico.


Sul METODO SCIENTIFICO (parte II)
Nelle scienze, altro metodo principe è il metodo deduttivo.
I filosofi e gli epistemologi (i filosofi della scienza) sono soliti contrapporre – come se si trattasse di una competizione – il metodo deduttivo e il metodo induttivo, come se uno fosse l’antagonista, l’opposto, il nemico dell’altro. Tale contrapposizione ideologica si ritrova anche nel modo con cui tali metodi vengono generalmente descritti. Nel metodo induttivo, si dice, il ragionamento va dal particolare al generale”, mentre nel metodo deduttivo il ragionamento va dal generale al particolare”. Chi fa scienza non si appassiona alle contrapposizioni filosofiche e terminologiche e, badando al sodo, scivola insensibilmente da un metodo all’altro, usandoli entrambi in maniera sinergica. In che cosa consista il metodo deduttivo è presto detto.  
Il prototipo semplificato del metodo deduttivo è il già citato classico sillogismo in cui a partire da due assunti di carattere generale, per esempio: a) i frutti maturi che stanno sui rami, prima o poi cadono a terra e b) tutte le mele maturano sui rami, è possibile trarre una conclusione particolare, per esempio, c) questa mela matura, prima o poi cadrà dal ramo. Se il ragionamento si limita alla pura logica, ovvero se il ragionamento non implica sperimentazioni o verifiche fattuali ma si limita a conclusioni teoriche tratte dalla pura consequenzialità delle asserzioni, allora questo non può essere considerato un metodo scientifico ma un puro sillogismo. Ovviamente, la logica non esclude la scienza e la scienza non esclude la logica. Anzi, quando si pongono ipotesi, la logica è essenziale. Il ragionamento deduttivo diventa un metodo scientifico quando ad esso si associano procedure sperimentali atte a verificare la veridicità degli assunti e/o delle conclusioni dedotte logicamente. Quanto all'esempio sopra riportato, la presunta universalità e veridicità degli assunti può essere sostenuta da un largo numero di osservazioni sui tempi di maturazione dei frutti, sulla effettiva caduta dei frutti maturi e sulla relazione tra il grado di maturazione e la caduta a terra dei frutti medesimi. La veridicità della previsione (o della conclusione logica) può essere dimostrata dalla registrazione dei dati riguardanti la maturazione e l’effettiva caduta della mela. Poiché, tuttavia, non tutti i frutti e non tutte le mele del mondo possono essere tenute sotto osservazione, è evidente che l’universalità del fenomeno è solamente presunta. Inoltre, potrà succedere che qualcuno a cui piacciono le mele acerbe, passando di lì stacchi la mela e se la mangi prima che questa maturi e si stacchi dal ramo. La situazione del tacchino induttivista si può ripetere anche per il ragionamento deduttivo che riguarda la mela. Cosa significa ciò per il metodo deduttivo? Significa che se la mela non cade, la teoria non può essere confermata. E se la mela cade? Se i fatti confermano che la mela cade, questi fatti NON dimostrano con certezza assoluta che la teoria sia stata confermata ma solo che la teoria non è stata smentita dai fatti medesimi.
Il metodo scientifico abbina il metodo induttivo a quello deduttivo in un loop di ipotesi, esperimenti, verifiche, conferme e nuove ipotesi. Un loop che richiama metaforicamente la funzione della “vite senza fine” di Leonardo da Vinci, uno strumento che consente di procedere all’infinito da un’ipotesi alla successiva, attraverso le necessarie conferme e smentite.

La leonardesca vite senza fine
Questo non garantisce la perfezione del risultato. Non consente nemmeno di conoscere il “vero”. È un approccio che consente di fare progressi e di limitare l’errore che, però, può nascondersi in innumerevoli dettagli.
Il metodo scientifico riconosce all’errore un fondamentale valore euristico: ciò significa che la scienza tiene in conto l’errore, “metodologicamente”. L’errore e l’approssimazione sono elementi costitutivi della scienza e lo scienziato sa che uno dei compiti è proprio quello di stanare l’errore e di correggerlo con uno di minore entità. Questo, in fondo, non è altro che il principio di falsificazione (o principio della confutabilità) proposto da Karl Popper: la scienza non può mai essere certa di dimostrare qualcosa ma può esercitare il suo potere confutando di volta in volta le teorie che contengono errori, cercando di correggerle. Il principio della confutabilità, così come s’era detto per il metodo, può essere considerato uno strumento e, insieme, uno stato d’animo o un habitus mentale.
L’esperimento (l’osservazione critica, governata e misurata del fenomeno) è una componente essenziale del metodo scientifico. L’esperimento (eventualmente anche l’esperimento mentale) è il braccio armato che consente di sottrarre il ragionamento logico-ipotetico al dominio della metafisica e di associarlo inscindibilmente all’approccio induttivo che tende a cercare le regole generali che governano o descrivono il fenomeno. L’esperimento consente di inserire nell’ambito delle esperienze empiriche (concrete, verificate, fattuali) anche le cosiddette scienze teoriche, perché ogni teoria richiede una qualche dimostrazione, non foss’altro per non essere falsificata o sconfessata (e se così fosse, per poter essere sostituita da una meno falsificabile). L’esperimento consente di rendere “scientifico” il procedimento ipotetico-deduttivo che nasce come procedimento di natura esclusivamente logica.
L’esperimento non è semplice osservazione e misurazione dei fatti che riguardano un fenomeno, un’ipotesi, una teoria. L’esperimento è un processo mentale piuttosto articolato. Innanzitutto è necessario concettualizzare il fenomeno (o l’ipotesi) che si intende verificare: la concettualizzazione ha lo scopo di anticipare e prevedere caratteristiche, modalità, varianti e conseguenze misurabili di ciò che si intendere mettere sperimentalmente sotto osservazione. La concettualizzazione serve anche a individuare, e in qualche modo ad isolare, alcuni specifici elementi (ritenuti cruciali) da osservare, da testare in modo particolare e su cui effettuare le misurazioni. Già di per sé, questo momento concettuale dell’esperimento introduce variazioni sperimentali al fenomeno o alla teoria generale perché impone limiti artificiosi e circoscrive l’osservazione ad alcuni specifici elementi. La concettualizzazione comprende le osservazioni preliminari del fenomeno; la raccolta delle informazioni ritenute pertinenti e rilevanti; la formulazione di ipotesi circoscritte agli specifici elementi da sottoporre a verifica sperimentale; l’individuazione – all’interno delle verifiche sperimentali che si eseguiranno – delle conseguenze sul fenomeno che si intendono osservare, misurare, confrontare; e infine la definizione dei parametri da misurare, dei tempi e dei modi con cui effettuare le misurazioni.
Alla fase concettuale dell’esperimento segue la messa a punto delle condizioni sperimentali vere e proprie: la messa in opera dei dispositivi operativi, tecnici e tecnologici di supporto all’esperimento, la realizzazione di un numero di osservazioni/esperimenti congrui con le ipotesi o gli elementi da verificare, l’analisi dei risultati e delle misurazioni effettuate nel corso dell’esperimento, la conferma o la confutazione delle ipotesi che si volevano valutare e la riformulazione di nuove ipotesi e/o di nuovi esperimenti. Quando si parla di esperimento, si parla sostanzialmente di tutto ciò e, a volte, tutto ciò è particolarmente complicato, sia da concettualizzare sia da realizzare empiricamente.  

Benché talora qualche giornalista o qualche sprovveduto divulgatore parli di esperimento “conclusivo” – con ciò intendendo che quell’esperimento comprova una certa teoria una volta per tutte – il termine conclusivo non si addice allo spirito più profondo dell’esperimento scientifico se non nel caso in cui i risultati dell’esperimento decretino una volta per tutte la falsificazione di una certa teoria. Ci sono certamente esperimenti “cruciali” (uno dei più recenti è stato quello che ha confermato l’esistenza del bosone di Higgs, fino ad allora postulato su basi teoriche) i quali sono in grado di sostenere fortemente un’ipotesi ma mai di verificarla in modo definitivo, anche perché la scienza non considera mai del tutto definitiva e non ulteriormente migliorabile nessuna delle sue affermazioni.


L’esperimento si colloca obbligatoriamente in una visione “riduzionistica” della ricerca scientifica. Si parla qui del riduzionismo metodologico, che è uno degli approcci (operativi e mentali) tipici del fare scienza. Fondamentalmente, l’idea che il riduzionismo metodologico persegue è di studiare l’intero (troppo complesso per essere analizzato nel suo insieme) riducendolo in frammenti più piccoli e più semplici, presumendo: a) che il piccolo sia più semplice dell’intero; b) che l’essenza dell’intero possa essere ottenuta dalla ricongiunzione di tutte le informazioni ottenute sui singoli frammenti. Entrambe le presunzioni, pur verosimili, sono lontane dall’essere vere: il “piccolo” non è necessariamente più semplice dell’intero e la complessità dell’intero emerge dal suo essere “intero” e non dalla sommatoria delle sue frazioni. Detto ciò per amore della precisione, queste due presunzioni, pur essendo relativamente grossolane, nulla tolgono al fatto che il riduzionismo metodologico si sia sempre rivelato uno strumento assai utile per aggiungere nuove conoscenze all’insieme delle vecchie conoscenze. Uno strumento con dei limiti non necessariamente dev’essere considerato uno strumento inutile o fallace. Nelle attività economico-produttive esiste un analogo di quello che per le scienze è il riduzionismo metodologico. Si tratta del taylorismo, dal nome di Frederick Taylor che, a metà ottocento in piena rivoluzione industriale, scoprì che la produzione industriale poteva aumentare se le attività complesse venivano suddivise in attività più semplici assegnate, ripetitivamente, ai singoli operai. In parole povere, se un gruppo di operai eseguiva, dall’inizio alla fine, un’attività complessa, la produzione era inferiore a quella dello stesso gruppo di operai se a ciascuno di essi era assegnata una sola attività semplice da eseguire in modo ripetitivo. La catena di montaggio è più produttiva (ma non necessariamente di migliore qualità) dell’attività “olistica”. I vantaggi produttivi sono evidenti se ci si può permettere di perdere la visione d’insieme. Se questo è accettabile in attività produttive ove la visione d’insieme compete ai piani alti dell’organizzazione, nelle scienze, perdere la visione d’insieme o di quegli aspetti cruciali da cui emergono le funzioni “superiori” dell'intero, può essere un serio limite allo sviluppo della conoscenza.
Ecco spiegata la relazione tra esperimento e riduzionismo metodologico. L’esperimento, essendo sempre limitato a qualche aspetto empirico dei fenomeni e delle teorie sotto indagine, ha senso solo all’interno del quadro di riferimento del riduzionismo metodologico. Questo, a sua volta, è contenuto nel paradigma meccanicista, quel modo di vedere molto caro alle scienze in cui l’universo è assimilato metaforicamente a una macchina e nel quale le cause e gli effetti sono legati in maniera deterministica.
Tutto ciò, con i suoi evidenti limiti, è sempre stato e rimane un modo proficuo per analizzare e per spiegare i fenomeni naturali.
L’esperimento presuppone implicitamente la misurazione. La misurazione (il peso, la velocità, la massa, la grandezza, ecc., ecc.) non è solo una procedura tecnica per cercare, per quanto possibile e ove possibile, di tradurre in “fatti” alcune caratteristiche di un fenomeno. La misurazione è un atteggiamento mentale: è un tradurre elementi fenomenici compositi in un linguaggio numerico che consenta confronti e manipolazioni quantitative (dati) di aspetti qualitativi. L’attitudine alla misurazione (che include l’attitudine al confronto, alla verifica e, quindi, anche alla critica circostanziata) è un elemento tipico dell’agire scientifico. Questa attitudine ha molto a che fare con la chiave misteriosa che Cartesio affermava essersi presentata a lui in forma di visione nella notte del 10 novembre 1619. Questa chiave avrebbe consentito – in un’ottica fortemente orientata al monismo metodologico – di riunire con la potenza oggettiva della misurazione, tutte le scienze in un’unica scienza. La chiave era, appunto, l’applicazione della matematica alla geometria e, in maniera più generale, alle procedure per indagare e spiegare i fenomeni naturali. Su questa stessa falsariga, con un certo trionfalismo Lagrange affermava: Fino a quando l’algebra e la geometria avanzarono su sentieri separati il loro progresso fu lento e le loro applicazioni limitate. Ma quando queste due scienze unirono le loro forze, esse trassero l’una dall’altra fresca vitalità e da allora in poi marciarono a rapidi passi verso la perfezione (1795).

Oltre a quanto detto fin qui, il cosiddetto metodo scientifico include altri requisiti. Uno di questi, di nuovo, potrebbe essere catalogato nella categoria della predisposizioni d’animo”. Si tratta della predisposizione a condividere ciò che si fa e ciò che si ottiene con gli altri. In altre parole, una predisposizione a non chiudersi nel segreto del proprio gabinetto di studio. Intendiamoci: non che non si possa fare una scienza “segreta”: in ambito militare non si fa altro e, negli ambiti in cui brevettare per primi è di importanza vitale, anche qui si fa scienza in modo molto, molto riservato. Tuttavia, consuetudine vorrebbe che la scienza, ovvero l’agire dello scienziato, condivida saperi, procedure, e risultati. Tale condivisione servirebbe per mantenere le conoscenze scientifiche nei limiti dell’oggettività.Oggettività è un termine impegnativo e sdrucciolevole perché presuppone tutta una serie di impliciti assunti filosofici (realtà, verità, assolutezza, ecc.) su cui ci sarebbe molto da discutere. Escluderò pertanto dal mio ragionare il termine oggettività anche se questo termine si trova assai spesso associato alla dizione metodo scientifico”. Oggettività a parte, la condivisione e lo spirito con cui si accetta (e lo si desidera) di condividere il proprio sapere e il proprio agire con gli antri è una componente metodologica costitutiva del fare scienza. D’altra parte, fare scienza approfittando di ciò che gli altri condividono con noi e negando agli altri i nostri risultati e le nostre conoscenze, sarebbe un modo alquanto disdicevole di porsi nella comunità scientifica. Purtroppo sarebbe illusorio attendersi una piena e totale condivisione perché assai spesso chi fa scienza (termine allargato in cui includo scienziati professionisti, università, investitori) non desidera spianare del tutto il terreno ai concorrenti, col rischio che questi arrivino per primi al risultato eccellente o al brevetto milionario. Bisogna trovare un compromesso umanamente accettabile. Si sa, per esempio, che Galileo e Keplero corrispondevano e si scambiavano un certo numero di informazioni. Tra i due, però, Galileo faceva un po’ il difficile e talvolta, per mettere in difficoltà Keplero, per rallentarlo (e anche per divertirsi alle sue spalle), condivideva con lui certi risultati ma glieli forniva in forma enigmatica, di sciarada o di indovinello. La condivisione è importante perché la scienza basa molta parte della sua autorevolezza sulla possibilità della contraddizione e della falsificabilità oltre che, naturalmente, della riproducibilità dei risultati. La scienza è una società aperta in cui si condivide il sapere sia per renderlo disponibile sia per renderlo verificabile: questo modo di fare aumenta esponenzialmente la possibilità di crescita della conoscenza rispetto a un’ipotetica scienza chiusa e segreta. La condivisione è quindi una caratteristica fondante del fare scienza e, quindi, del metodo scientifico.

Nel prossimo post si riprenderà esattamente da questo punto.


lunedì 18 settembre 2017

IL METODO SCIENTIFICO (prima parte)

Prima della vacanza estiva (vacanza à dell’esser vacui ovvero liberi da occupazioni mentali) mi ero lungamente speso nel tentativo di trovare una definizione di scienza che fosse sufficientemente larga per contenere tutto ciò che, a mio giudizio, la scienza È e sufficientemente restrittiva per lasciar fuori tutto ciò che la scienza NON È

La ricerca di una definizione veramente soddisfacente era stata infruttuosa. Alla fine avevo affermato che, in fondo, si potrebbe arrivare a definire che cos’è la scienza analizzando il metodo che essa usa, individuando proprio nel metodo il possibile discrimine tra ciò che la scienza è e ciò che essa non è. Detto fatto. I post che seguono (tre in tutto) cercano di mettere sotto la lente d’ingrandimento il cosiddetto METODO SCIENTIFICO, dopo di che, forse, si potrà finalmente trovare la strada per una soddisfacente definizione di scienza. In questi post si parlerà dell’intreccio inevitabile tra scopo e metodo, di scienze dure e molli (semidure e semimolli incluse); si parlerà di sperimentazione e di misurazione, di Weltanschauung e di “come se”; di metodo induttivo e deduttivo; di errore, condivisione, falsificazione. Si parlerà di riproducibilità e di riduzionismo, ma anche di caso, di dubbio, di ribellione, e, perché no, di poesia. Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia ed è ora di mettersi in viaggio.    

Il metodo scientifico: una rappresentazione ipersemplificata 
Che cos’è, dunque, il metodo scientifico?

In principio, uno SCOPO

Per avere un metodo è necessario, prima, avere uno scopo. Intuitivamente, è lo scopo a guidare il metodo: scopi diversi, metodi diversi.
Lo scopo della scienza, qual è?

LO SCOPO
Per la scienza in generale, e per ciascuna disciplina in particolare, lo scopo generico è migliorare la conoscenza, ma gli scopi di ciascuno sono inestricabilmente vincolati alla propria visione del mondo. Nei precedenti post s’è già detto qualcosa sull’argomento. Per esempio, s’è accennato al fatto che ci sono due principali visioni, non inconciliabili ma certamente molto diverse, su quale sia lo scopo della scienza. È presto detto. Da una parte ci sono coloro che ritengono che lo scopo della scienza sia definire in maniera “vera e oggettiva” che cosa c’è là fuori e come funziona. Dall’altra parte, ci sono coloro che ritengono che lo scopo dei primi sia illusorio, irrealizzabile e anche sbagliato. Per costoro, lo scopo della scienza è acquisire informazioni sempre migliorabili sui fenomeni del mondo per poterli prevedere e per poter agire su di essi per rendere più semplice, più sicuro, più lungo, più confortevole il nostro soggiorno nel mondo. Inutile dire che, personalmente, appartengo a questa seconda schiera e che i punti di vista che esprimo dipendono in gran parte da questa appartenenza.
Gli scopi della scienza, dunque, non appartengono alla scienza: non sono costitutivi di essa. Appartengono a chi fa scienza e fanno parte della sua Weltanschauung. In parole povere, sembra che lo scopo della scienza (o il fine che chi fa scienza le attribuisce) dipenda da posizioni teoretiche, filosofiche (e anche empiriche) che precedono il far scienza e di cui lo scienziato che opera sul campo non è sempre del tutto consapevole.
La questione degli scopi potrebbe coinvolgere anche la questione – sempre più attuale – delle differenze (e delle similitudini) tra scienze dure e scienze umane (scienze molli). La questione degli scopi potrebbe addirittura scavare distinguo e solchi profondi tra le diverse scienze molli, le quali sembrano compatte e omogenee quando confrontate all’intero pacchetto delle cosiddette scienze dure, ma si rivelano eterogenee quando si confrontano l’una con l’altra.
Cerchiamo di fare un po’ d’ordine e parliamo di una cosa per volta.

Duro come una pietra, soffice e morbido come una piuma

Scienze DURE e scienze MOLLI

Parliamo prima di scienze dure, quelle che vengono in mente per prime quando si pensa genericamente alla scienza. Riflettendo sulle scienze dure, dobbiamo per prima cosa esaminare se davvero le differenti Weltanschauung, oltre a influenzarne gli scopi, influenzano anche il metodo da utilizzare per far sì che la scienza sia davvero tale. Per fare ciò, è necessario per prima cosa indicare chiaramente a quali scienze si applica l’attributo dure”. Si tratta essenzialmente della fisica e della chimica e, limitatamente ad alcuni aspetti, della biologiaLa misurazione, la sperimentazione, e l’oggettività sono i criteri principi per dire che una scienza è dura. 
Senza contare la vaghezza e la criticabilità del termine “oggettività”, si vede fin da subito che, per lo meno in fisica e in biologia, ci sono grandi aree in cui la sperimentazione non è praticabile. In biologia, per esempio, alcune sperimentazioni sulla vita non sono possibili senza spegnere la vita stessa, mentre in fisica, non sono praticabili sperimentazioni su buchi neri, supernove o particelle quantiche tra loro legate ma che si trovano ai lati opposti dell’universo. La fisica che studia i buchi neri, quindi, se non si possono fare esperimenti sui buchi neri medesimi, cessa di essere scienza? Ciò rende del tutto evidente che anche i criteri che definiscono in modo perentorio che cosa è scienza e che cosa non lo è devono essere presi con una certa elasticità. 

Quanto alle scienze molli, con tale temine si intendono le discipline nelle quali l'analisi qualitativa dei dati è quantomeno pari se non superiore all’analisi quantitativa, ovvero sulle operazioni conseguenti alla loro misurazione. Tutte le discipline umanistiche e le cosiddette scienze sociali appartengono a questa area. Quelli che abbiamo visto essere i criteri principe delle scienze dure (misurazione, sperimentazione, l’oggettività) pur trovando largo impiego anche nelle scienze molli non ne costituiscono il cardine metodologico, affidandosi discipline come la storia, la filosofia, la letteratura, la sociologia e varie altre a criteri d’analisi d’altra natura.
Oltre alle scienze dure e a quelle molli, si deve considerare l’esistenza di una serie di discipline che stanno a metà strada tra le une e le altre e che io chiamerei scienze “semidure”: parlo della medicina (che è la disciplina all’interno della quale mi sono sentito scienziato), dell’astronomia, delle scienze naturali (zoologia, botanica, etc.), ed altre con rilevanti aspetti applicativi come le scienze psicologiche o le scienze economiche (potremmo chiamarle App? oppure semimolli”?), che necessitano di rigore, di metodi e di scopi decisamente scientifici per poter esplicare funzioni che siano coerenti con le proprie aspirazioni.  

Il comune territorio del “come se”

Ma torniamo alla questione da cui siamo partiti: quella dello scopo della scienza e se lo scopo condizioni il metodo. S’è visto che a seconda della visione con cui si guarda al mondo, chi si occupa di scienza può avere due tipi di scopi: uno è la verità oggettiva”, l’altro è una conoscenza utile”.
A prima vista si potrebbe pensare che la “conoscenza utile” stia un gradino più in basso rispetto alla “verità oggettiva”. La “conoscenza utile” si pone sul livello del relativo; la “verità oggettiva” si pone sul livello dell’assoluto. La prima si può accontentare di misurazioni e di previsioni di un livello sufficiente per risultare utili; la seconda richiede misurazioni e previsioni perfette, indiscutibili, assolute. L’esperienza ci insegna che ciò, semplicemente, non è possibile e che anche la “verità oggettiva” deve necessariamente accontentarsi di essere approssimata e migliorabile e non può essere, come vorrebbe, né verità né assoluta. Ma c’è di più, è la stessa identità statutaria della scienza a definirsi falsificabile e perfettibile. Quindi, non desta nessuno scandalo che la “verità oggettiva”, sia solo una mezza verità. Se le cose stanno così, allora, una mezza verità e una conoscenza utile cominciano a giocare su un terreno comune, un terreno di quasi-equiparazione. D’altra parte, chi si accontenta di una conoscenza utile, non si pone limiti riguardo alla qualità della propria conoscenza e vuole tendere alla conoscenza più profonda possibile, che poi è lo stesso livello di conoscenza che può raggiungere chi si pone come obiettivo la verità oggettiva e assoluta. Sul piano delle possibilità, pertanto, le due visioni convergono nel medesimo punto. Chi desidera raggiungere la verità assoluta, considererà il suo attuale livello di conoscenza “come se” fosse un livello assoluto, oltre al quale non s’è potuti andare. Chi desidera raggiungere la più profonda conoscenza utile, si comporta “come se” il suo livello di conoscenza sia, in assoluto, il più elevato possibile, altre al quale non si è ancora andati. Le due visioni, quindi, e i loro rispettivi scopi, si incontrano a livello comportamentale e di consapevolezza nel comune territorio del “come se”, e più in là di così non possono andare.  Nel territorio condiviso del come se”, aspirando entrambi a raggiungere il livello più elevato possibile di conoscenza, entrambi devono usare tutti i metodi disponibili per esplorare, misurare, ipotizzare, sperimentare, e quant’altro sia utile per “conoscere” il conoscibile del mondo, sia che lo si voglia considerare reale sia che lo si voglia considerare realtà apparente o fenomenica.

Il cardinale Roberto Bellarmino
Le due contrapposte Weltanschauung sono inconciliabili così come sono inconciliabili strumentalismo ed essenzialismo, sebbene alcuni filosofi (per esempio Karl Popper) abbiano tentato impossibili mediazioni. Tuttavia, nel territorio del “come se” si può giungere ad un armistizio e valutare se le due visioni implichino, davvero, il ricorso a “metodi scientifici” diversi. È utile fare un esempio di come diverse Weltanschauung che esprimono visioni del tutto diverse sulla cosiddetta realtà e sull’approccio “scientifico” da tenere nei confronti della realtà medesima, in fondo, sul piano metodologico non siano poi così distanti come credono di essere. Prendiamo il più classico dei casi di controversia scientifica e di Weltanschauung contrapposte: il caso del Tribunale dell’Inquisizione e di Galileo. La Chiesa – per “fede” o per “potere” – aveva il “dovere” di affermare, come premessa, che la verità vera e unica, quella con la V maiuscola, è quella rivelata nelle scritture: quella verità non è discutibile, è accessibile attraverso la fede mentre non lo è attraverso il laico e umano ragionare. È lecito, invece, discutere circa il modo con cui gli uomini cercano di comprendere i fenomeni del mondo, come si rapportano con essi, come li prevedono e li manipolano a loro uso e consumo. L’importante è che gli uomini non mettano in discussione la Verità (V). Quanto alla posizione degli astri, alla conoscenza delle loro dinamiche e all’utilizzo umano di tali nozioni, le formule tolemaiche o quelle copernicane, dal punto di vista della Chiesa, sono pure rappresentazioni e applicazioni strumentali che “salvano le apparenze”. Esse sono entrambe di estrema utilità (quelle copernicane forse più semplici e più utili di quelle tolemaiche) ma non “spiegano nulla” della verità del mondo, se non che la rappresentazione tolemaica, per il fatto di essere geocentrica, meglio si accorda con le Scritture. Per la Chiesa, lo scandalo è che Galileo non considera il modello copernicano come una “rappresentazione strumentale” per fare predizioni, ma lo considera una rappresentazione “vera” del mondo. In tale situazione, lo stumentalismo della Chiesa si contrappone all’essenzialismo di Galileo. Così  il cardinale Bellarmino ammoniva Galileo durante il primo processo a suo carico: Galileo agirà prudentemente se parlerà ipoteticamente, ex suppositione: il dire che rendiamo conto delle apparenze, supponendo che la terra si muova e il sole sia in quiete, meglio di quanto possiamo fare usando l'eccentriche e gli epicicli, è parlare propriamente: non c'è pericolo, in questo, e questo è tutto ciò che il matematico ha bisogno.” In verità, Galileo prendeva le debite distanze dall’idea di cercare l’essenza ultima delle cose o di conoscere la realtà che si manifesta nei fenomeni. Dice infatti Galileo: “ Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell’intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall’uno all’altro”.

Sul METODO SCIENTIFICO (parte I)

È ora di farsi qualche domanda.
Quali sono dunque questi metodi su cui si basa l’agire scientifico? Quali procedure e quali processi mentali implicano? Esiste davvero un metodo scientifico? Definisco la scienza in base al metodo che usa o definisco scientifico un metodo perché è usato da chi fa scienza? (Nell’ultima domanda vedo il serpente tautologico che si mangia la coda).
Un metodo, per essere definito tale, credo debba avere una duplice natura: deve essere uno strumento d’utilizzo pratico e, contemporaneamente, deve essere una (pre)disposizione d’animo. Lo strumento per risolvere i problemi non può essere dissociato dalla disposizione d’animo con cui i problemi si affrontano. Questo vale per qualunque metodo e il metodo scientifico non fa eccezione.

Una delle prime definizioni di metodo scientifico è rintracciabile, oltre 11 secoli fa, nelle parole del medico, filosofo, astronomo islamico Alhazen (Ibn al-Haytham, 965-1040), grande esperto di ottica e di visione, il quale sottolineava l’importanza della sperimentazione pratica, là dove è possibile, nelle indagini sulla natura. Fu poi Francis Bacon, nel Novum Organum (1620), a formalizzare per primo l’idea di metodo scientifico”, noto ancor oggi come metodo baconiano. Egli fu il primo a escludere il sillogismo dalle procedure “scientifiche”, confinandolo alle procedure logico-filosofiche. Il sillogismo come pura tecnica logica può portare a grossolani errori nel caso in cui uno dei termini sia errato. Tuttavia, la pratica del sillogismo (se A = B e se B = C, allora A = C) ha ancora una sua utilità nel ragionare scientifico, in modo particolare quando si pongono ipotesi.
Il metodo baconiano è quello del ragionamento INDUTTIVO: osservare il fenomeno, raccogliere sistematicamente i dati qualitativi e quantitativi inerenti il fenomeno, analizzare ed elaborare i dati riguardanti il fenomeno in modo da trarne (INDURRE) leggi generali che governano e/o descrivono le dinamiche del fenomeno.
Bacon aveva anche molto opportunamente sottolineato la natura COLLETTIVA della scienza: la scienza come luogo in cui gli studiosi apportano il loro materiale, le loro osservazioni, le loro misurazioni, accumulandole e condividendole. Gli empirici", affermava, “sono come formiche: accumulano e usano. I razionalisti tessono tele come i ragni. Ma il metodo migliore è quello delle api perché si comportano un po’ come i primi e un po’ come i secondi: traggono il materiale esistente e lo utilizzano”.

Rispetto alla logica filosofica che si basava ampiamente sull’autorità degli antichi maestri, il metodo baconiano è stato rivoluzionario e fa parte tutt’ora del bagaglio metodologico dello scienziato: osservare il fenomeno e le sue varianti, ipotizzare leggi generali, sperimentare. Per sperimentazione bisogna intendere la ripetizione governata del fenomeno introducendo anche variabili che perturbano il fenomeno medesimo, per capire se le leggi generali ipotizzate si confermano oppure no. L’esperimento deve essere disegnato proprio per mettere alla prova dei fatti le leggi ipotizzate. C’è un rigore intrinseco, quasi meccanico, nel metodo induttivo baconiano.
Tale metodo è considerato da taluni il metodo principe per chi fa scienza, forse l’unico meritevole di essere chiamato “scientifico”. Il metodo induttivo ha uno scopo preciso: partendo dalle osservazioni di specifici fenomeni, determinare delle Leggi generali che spieghino come funziona il mondo e che consentano di predire particolari fenomeni. Al giorno d’oggi, anche se aggiornato in alcuni dettagli, il metodo induttivo segue pari pari la logica baconiana:
Osservazione del fenomeno à ripetizione del fenomeno à misurazioni riguardanti il fenomeno à esperimenti sul fenomeno (perturbazione delle condizioni in cui si verifica il fenomeno) e misurazioni correlate à verifica delle misurazioni e confronti tra misurazioni à definizione di un modello fisico generale riguardante il fenomeno à formulazione di ipotesi contestualizzando il fenomeno nel modello prefigurato à definizione di un modello fisico-matematico per analizzare il fenomeno e le sue varianti sperimentali à disegnare esperimenti che forniscano informazioni su specifiche caratteristiche del fenomeno à mettere in atto gli esperimenti ed effettuare le misurazioni pertinenti à confrontare gli esiti dell’esperimento e le misurazioni pertinenti à formulare una teoria generale à disegnare ulteriori esperimenti di verifica à in base ai risultati … accettare o rigettare le ipotesi particolari e le teorie generali.

Un esempio di metodo induttivo è quello con cui si può determinare una “legge” riguardante la forza gravitazionale. Si osserva il fenomeno di una mela che cade da un albero. Si ripete più volte l’osservazione del fenomeno per verificarne la ripetibilità, ovvero la non occasionalità. Si sottopone il fenomeno a varianti per valutarne l’universalità (ottenendo, per esempio, risultati analoghi usando mele, pere, sassi, e oggetti di varia natura). Si effettuano misurazioni. Si notano differenze tra la velocità di caduta dei sassi, delle mele, delle piume. Si formulano ipotesi e si definiscono modelli fisici che tengano conto delle varianti. Si disegnano esperimenti che aboliscano l’effetto di certe varianti (per esempio, si fanno cadere gli oggetti all’interno di un tubo nel quale sia stato creato il vuoto per eliminare l’effetto dell’aria); si effettuano gli esperimenti e si fanno misurazioni. Si confrontano le misurazioni. Si ipotizza una teoria generale per la caduta dei gravi e si definisce matematicamente l’accelerazione con cui i gravi precipitano a terra. Si disegnano altri esperimenti di verifica o di confutazione: per esempio si fanno cadere altri tipi di oggetti, oppure si effettuano esperimenti a quote diverse (a livello del mare e in cima a qualche alta montagna, nelle regioni polari e all’equatore). Si confrontano le misurazioni. In base ai risultati, si dichiara verificata o confutata la teoria generale sui gravi.

Traendo risposte generali da fenomeni particolari, il metodo induttivo presuppone che i singoli fenomeni particolari siano rappresentativi della universalità di quel determinato tipo di fenomeno. Se avessimo osservato sempre e solo i pesci rossi di un aquario, potremmo indurre che tutti i pesci sono rossi. Ciò non è universalmente vero, mentre lo è all’interno di quello specifico acquario. Il metodo induttivo, quindi, ha determinanti limiti per quanto riguarda la generalizzazione delle conclusioni cui può pervenire. A proposito di questi limiti, un simpatico paradosso è quello del tacchino induttivista, posto dal filosofo e matematico inglese Bertrand Russell: il contadino americano nutre il suo tacchino con regolarità tutti i giorni fin da quando il tacchino è uscito dall’uovo. Il tacchino, quindi, è autorizzato a pensare – induttivamente – che anche domani verrà regolarmente nutrito. Purtroppo per lui, “domani” è il Giorno del Ringraziamento: il tacchino non solo non sarà nutrito, ma finirà con l’essere lui stesso il nutrimento del contadino. Il ragionamento induttivo del tacchino ha fornito predizioni fenomeniche sbagliate. 

Il tacchino induttivista
Come si vede, il metodo induttivo – il metodo principe dell’agire scientifico – ha anch’esso i suoi limiti. Col prossimo post passeremo sotto la lente d’ingrandimento altri aspetti del metodo scientifico.