giovedì 24 ottobre 2019

NO, NON SONO UN ROBOT


Prima che Walt Disney le addolcisse rendendole caramellose, le fiabe avevano il compito di educare, ridurre all’obbedienza e ammaestrare i bimbi attraverso la paura. 

Ne sono una testimonianza le fiabe dei fratelli Grimm (pensiamo a un Pollicino abbandonato nel bosco dai genitori o ad Hänsel e Gretel consegnati alla strega del bosco affinché se li mangiasse) o quelle di Heinrich Hoffmann, con Pierino Porcospino e, peggio ancora, La tristissima storia degli zolfanelli, nella quale la disubbidente Paoletta muore nell’incendio da lei stessa provocato giocando con i proibitissimi fiammiferi e di lei rimangono solo le scarpette e un mucchietto di cenere.

Frontespizio di Pierino Porcospino
Forse con l’intento di ammaestrarmi, a metà degli anni '50 (avevo sei-sette anni), i miei genitori mi portarono a veder un film intitolato L’invasione degli Ultracorpi (di Don Siegel). Vi si narrava di persone che durante il sonno venivano rimpiazzate da replicanti, copie identiche alle persone di cui prendevano il posto. I replicanti maturavano in enormi, orrendi baccelli schiumosi. Per questa fiaba nessun lieto fine: il film lasciava intendere che i pochi che si rendevano conto delle sostituzioni e si opponevano all'invasione sarebbero stati rapidamente sopraffatti dalla legione dei nuovi umanoidi (non pochi lessero nei replicanti la metafora del pericolo comunista, dove le persone finiscono con diventare non persone). Il pianeta sarebbe stato invaso da esseri che, sostituendosi a noi, avrebbero preso in mano le redini del mondo e, quel che è peggio, pur accorgendosi che qualcosa di strano stava accadendo, l’umanità sembrava trascurare il pericolo, quasi un deliberato non voler vedereCome tutti i bimbi, non ero in grado di distinguere una "fiaba" dal "reale: rimasi sconvolto, e quell’impressione di terrore riemerge ancora adesso mentre ne riparlo a sessant’anni di distanza.

L'invasione degli ultracorpi: un replicante emerge dal baccello schiumoso 
Più in là negli anni, era il 1988, vidi al cinema un’altra favola: Essi vivono (di John Carpenter). In questa fiaba i replicanti (una sorta di robot umanoidi) assumono una forma perfettamente umana ma il loro vero e terrificante aspetto è reso visibile da uno speciale tipo di occhiali da sole. Anche in questo caso sono ben pochi gli umani che vogliono davvero vedere e cercano di resistere all’invasione. La gran massa degli altri si disinteressa del problema, lascia correre, come se la cosa proprio non li riguardasse. I pochi eroi che resistono all’invasione verranno tutti sopraffatti. Ormai adulto, non mi spaventai come da bambino, ma l’idea che la gran parte della gente preferisca non vedere il pericolo quando questo assume forme suadenti mi è rimasta nella mente come un piccolo tarlo.

Essi vivono: un invasore in panni umani come appare visto con gli speciali occhiali
Queste sono tutte fiabe, si dirà: è un genere di cassetta, la fantascienza. Consoliamoci pure così.
Peccato che, fantascienza a parte, ci siano già tra noi milioni e milioni di robottini invisibili, i bots, che traggono il rassicurante nomignolo dalla parola ROBOT, termine usato per la prima volta nel 1920 dal commediografo ceco Karel Čapek. I bots sono piccole strisce di informazioni: piccoli simpatici e utilissimi mostri creati dalle tecnologie informatiche. Sono semplici algoritmi capaci di svolgere compiti semplici: possono rilevare e correggere errori sintattici, valutare la corrispondenza degli indirizzi URL (htpp://…) con gli oggetti cui fanno riferimento, e altre cose del genere. Ma poiché possono essere legati a strumenti di intelligenza artificiale, possono anche riconoscere elementi o frasi sulla cui base aggiungere un “like” sui social network, possono inviare commenti più o meno standardizzati in risposta a notizie o a nomi che trovano in rete, possono assumere i connotati di “account” e, quindi di persone. È a questo punto che, incontrando dei bots sulla nostra strada, sul nostro computer, sul nostro smartphone, non sapremmo più dire se abbiamo a che fare con un “chi” o con un “che cosa”. Questo, di per sé, è inquietante, così come è inquietante quando, per esempio, comperando un biglietto ferroviario online ti viene posta la domanda: «Sei un Robot?», e devi immediatamente dimostrare, trascrivendo un codice alfanumerico deformato, che … «NO, non sono un robot: io, no, ma tu sì, accidenti!».

Milioni e milioni di questi robottini-account hanno interferito con l’opinione politica degli americani (e che lo fanno tuttora con quella degli italiani) tanto che Facebook ha dovuto recentemente rimuovere due miliardi (sì, 2.190.000.000) di falsi bot-account (vedi al LINK). Questo è e rimane inquietante, anzi inquietantissimo.

Facebook ha dovuto rimuovere due miliardi di falsi profili
Alla voce Bot (informatica) (vedi al LINK), Wikipedia spiega tutto quello che c’è da sapere su questi algoritmi, ma la cosa più inquietante è che, se si va a cliccare sulla voce “cronologia” della pagina di Wikipedia, ci si accorge che alcuni degli account che hanno contribuito alla voce Bot, sono essi stessi dei bots, e ciò avviene per un grandissimo numero di pagine di Wikipedia o di altre pagine di pubblica costruzione. Una volta si sarebbe parlato di autoreferenzialità, circolarità, tautologia: concetti forse superati dai tempi. Tutto ciò è inquietante.

In conclusione, pur ammettendo che questi strumenti sono utilissimi perché in grado di effettuare senza errori e in tempo reale operazioni che sarebbero lunghe e noiose per qualunque operatore umano, questa invisibile invasione dovrebbe risvegliare le coscienze ad alzare il livello di guardia sul loro uso, visto e considerato che il loro utilizzo è già stato in grado di manipolare su larga scala attenzione, opinioni, tendenze, orientamenti, preferenze, sentimenti. Tuttavia, così come nelle fantasiose storie narrate in L’invasione degli ultracorpi ed Essi vivono, pare che i più preferiscano rimanere nello stato della beata incoscienza. Se questa fosse una fiaba (e purtroppo non lo è), dovrebbe fare paura per ammaestrare, educare, rendere consapevoli, ma ai più questa favola sembra non fare alcuna paura. Dove porterà tutto ciò? La prospettiva distopica è l’unica che mi viene in mente.

POSTSCRIPTUM: 

a proposito, 



giovedì 3 ottobre 2019

Greta Thunberg e gli scienziati – Questione di linguaggio


Nel rapporto tra scienza e società, non c’è oggi argomento più caldo di quello che riguarda il clima. In questo delicato rapporto, nel quale la politica e l’economia giocano un ruolo determinante, è entrato il fenomeno Greta Thunberg a sparigliare completamente le carte.


Greta Thunberg
Non intendo affrontare il tema dei denigratori per professione o per diletto: non è un tema, questo, per persone serie. E comunque, a scanso di equivoci, affermo di stare dalla parte di Greta, non foss’altro per l’ondata a livello globale che il suo intervento (ovviamente supportato da chi ha interessi anche economici nella soluzione dei temi climatici) è riuscita a sollevare tra i giovani i quali manifestano l’intenzione di appropriarsi del proprio domani.

Milano, 27 settembre 2019 - manifestazione per il clima

Quello che mi interessa è mettere in luce la questione del linguaggio. Tra le decine di migliaia di commenti che intasano giornali e social media mi sono soffermato pochi giorni fa sull'intervento di 
Roberto Battiston, (fisico ed ex Presidente dell'Agenzia Spaziale Italiana) pubblicato da Huffington Post intitolato "Perché io, scienziato, credo che Greta abbia ragione". Battiston afferma che Greta è nel giusto in quanto per risolvere il problema la ragazza svedese si affida alla scienza affermando non ascoltate me, ascoltate la scienza (vai al LINK). Un'affermazione singolarmente simile viene da parte di alcuni denigratori di Greta: Che ce ne facciamo delle parole di una ragazzina dato che gli scienziati parlano del rischio climatico da cinquant’anni!”. Il Prof. Battiston fa seguire alle proprie affermazioni un articolo esaustivo e scientificamente ineccepibile che, non ostante le lodevoli intenzioni divulgative, immagino sia risultato poco comprensibile per una enorme fetta della popolazione italiana. Non c’è da stupirsi. La scienza è difficile non solo da fare ma anche da spiegare. Gli scienziati, eccellenze comprese, faticano a rendersi conto di quanto il loro linguaggio spaventi e allontani la gente. É difficilissimo tradurre in parole semplici argomenti complessi ma per farsi capire da tutti è necessario sacrificare i dettagli e semplificare il linguaggio. 
Greta utilizza messaggi brevi e diretti, che giungono allo stomaco prima di risalire al cervello. Per lo più, gli scienziati parlano al cervello ma molti dei loro messaggi finiscono col perdersi prima di arrivare al cuore e allo stomaco di chi li legge. I messaggi di Greta, al contrario, hanno la purezza quasi ingenua delle accuse che da sempre gli adolescenti gettano in faccia agli adulti. C’è chi ha scritto che il suo linguaggio è populista. Questa, che sembra una accusa, contiene un seme di verità se si vuole dare al termine populista la connotazione di un messaggio semplice e immediato che veicola significati che giungono senza mediazioni alle persone comuni e le coinvolgono profondamente. Sappiamo bene come, in politica, i messaggi populisti siano straordinariamente efficaci, coinvolgenti e molto spesso pericolosi. Per una volta che un linguaggio “populista” veicola messaggi utili e alti, sarebbe forse il caso di considerarli con maggiore benevolenza.

Greta non è “la soluzione. L'adolescente svedese è diventata l’icona di un risveglio che non poteva attendere oltre. Non si può pretendere che Greta sia diventata un’icona solo con la farina del suo sacco. Certamente ci sono investitori, capitali, politici ed esperti di marketing dietro all'icona (pochi che l’hanno sostenuta fin dall'inizio e i soliti molti che si sono accodati dopo che ha avuto successo). D’altra parte, non solo gli hamburger più tossici, ma anche le merendine più sane hanno bisogno di marketing, packaging, e pubblicità. Da sempre, per diffondersi, le idee hanno avuto bisogno del sostegno di icone, di simboli, di bandiere, il cui minimo comun denominatore è la semplicità e l'immediatezza del linguaggio. La difesa del pianeta non ha forse bisogno dello stesso sostegno? Un linguaggio alla portata di tutti, come quello di Greta, è di fondamentale importanza per creare il dovuto sostegno, aprendo la strada a chi (scienziati, politici, imprenditori, e noi stessi con i nostri comportamenti individuali) potrà mettere in atto le giuste soluzioni.  

Politici che discutono di riscaldamento globale - Installazione, Berlino 2019