lunedì 20 febbraio 2017

Paura della scienza: una paura postmoderna - POST-illa

Nel post proposto qualche giorno fa e intitolato PAURA DELLA SCIENZA: UNA PAURA POSTMODERNA, parlavo di "dati" e di "fatti"; di "scienza"; della responsabilità della "formazione e dell'informazione" in relazione allo sviluppo (o al mancato sviluppo) dello "spirito critico"; del peso che le "emozioni" giocano nella percezione, nella "interpretazione" e nella memorizzazione dei fatti; dell'incapacità dei "cattivi politici" di sapersi avvalere di una corretta valutazione dei "fatti" prima di proporre soluzioni a problemi della cui complessità non vogliono o non possono rendersi conto. 


La Lettura, il supplemento del Corriere della Sera, contiene spesso alcuni stimoli che mi invitano alla riflessione. Oggi, aprendo tardivamente La Lettura #273 di Domenica 19 febbraio, mi accorgo che - con un tempismo che ha dello straordinario - sembra quasi che questo giornale abbia preso spunto dalle mie parole per ragionare sui medesimi argomenti trattati nel mio post.
Su questo numero de La Lettura ci sono ben tre interventi - ben più dotti del mio, si intende - sull'argomento da me trattato.  A pag. 8, Mauro Bonazzi interviene con un articolo intitolato Fatti Alternativi (leggi, "bufale" o "fake news"); a pag. 9, Serena Danna interviene con un articolo intitolato Il partito degli scienziati in marcia in nome dei dati; a pag. 11, Marilisa Palumbo interviene con un articolo intitolato La Società degli incompetenti.  
In questi tre interventi ho trovato affermazioni che mi hanno lasciato quasi sbalordito per il modo in cui riecheggiavano alcuni dei miei pensieri. Qui dDi seguito alcuni esempi, non contestualizzati ma ugualmente significativi, tratti da detti articoli: 

"Occorre dotare le persone di strumenti adatti per giudicare quello che viene loro raccontato"; 
"Questo permette ai manipolatori di alimentare equivoci e diffondere falsi";
"Nella realtà contano solo i fatti. L'accertamento dei fatti basta a stabilire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato: ma non sempre è così";
"Nel mondo degli uomini, però, i fatti non significano nulla: [...] i fatti devono essere spiegati e valutati. Ci sono i fatti e le interpretazioni";
"I cattivi politici [...] rifiutano di riconoscere la complessità";
"Quando non bastano le notizie vere, se ne inventano di false";
"Dotare le persone di strumenti che permettano di giudicare quello che viene loro propinato";
"[...] imparare ad affrontare la complessità";
"Gli esperti che producono e usano le statistiche sono stati dipinti come arroganti e ignari delle dimensioni emotive che della politica";
"Le emozioni sono ritenute più importanti dei fatti";
"L''accesso alla conoscenza non è mai stato così facile, ma la resistenza all'apprendimento non è mai stato così forte";
"[...] ostilità attiva al sapere; [...] non hanno idea di come si indaghino i problemi e di cosa sia il pensiero critico".


Non mi resta che invitare chi ha letto o condiviso il mio precedente post a leggere gli articoli di cui sopra che, pur nelle loro differenze, interpretano un tema caldo, un tema che - visti anche i rivolgimenti politici recenti e i temuti rivolgimenti prossimi venturi - ha rilevanti implicazioni politiche e sociali. 

mercoledì 15 febbraio 2017

Paura della scienza: una paura postmoderna

Rimugino da tempo sull'incapacità della politica (e delle varie componenti sociali) di affrontare in modo pacato e quanto più neutrale possibile i vari e gravi problemi che si affollano irrisolti attorno a noi. Alla generale capacità – generica quanto sterile – di sbraitare su questo o quel problema che "gli altri" hanno provocato o che "gli altri" non sanno risolvere, non sembra corrispondere una pari capacità da parte dei singoli, dei raggruppamenti, della collettività e tantomeno della politica, di applicare un metodo analitico che sappia fare i conti con l'essenza dei problemi.    

Riconoscere la natura e l'essenza dei problemi (economici, politici, sociali) non significa affatto, di per sé, trovare le soluzioni. Data la complessità della società, le soluzioni non sono, né potrebbero essere, semplici o univoche. Inoltre, ogni soluzione che si propone è fortemente influenzata dalle differenti visioni del mondo di ciascuno, dall'essere più o meno attento alle esigenze del singolo o della collettività, dell'essere più o meno vicini a etiche laiche o a etiche religiose. Tuttavia, riconoscere la natura e l'essenza dei problemi dovrebbe essere il comune terreno di partenza per proporre soluzioni per ridurre il disagio collettivo incancrenito dal persistere dei problemi irrisolti. Riconoscere la natura e l'essenza dei problemi significa rendersi conto della complessità delle situazioni da cui i problemi emergono, in modo che le soluzioni proposte tengano conto di tale complessità e non generino, a loro volta, altri problemi insolubili. "Riconoscere la natura e l'essenza dei problemi"... «Eh, sì sì, SEMBRA FACILE ... riconoscere la natura e l'essenza dei problemi» avrebbe detto l'Omino coi Baffi Bialetti dei Caroselli di quando ero bambino...
    
Da bravo studioso delle faccende biologiche mi sono sempre crogiolato nell'illusione di una realtà oggettivamente conoscibile. Sulla base di tale premessa pensavo che anche di fronte alle tematiche economiche, politiche e sociali, il miglior modo di procedere avrebbe dovuto essere l'approccio scientifico, oggettivo e neutrale al problema. «Eh, sì sì, SEMBRA FACILE ...». 
Mentre mi arrovellavo su questo problema mi sono capitate contemporaneamente provenienti dal mondo esterno ai miei pensieri – ben tre diverse sollecitazioni attinenti al tema. 
Procedo con ordine.

La prima sollecitazione mi è arrivata via facebook. Conoscendo le insidie che permeano i social forum, di fronte alle sollecitazioni che mi arrivano da quel "dominio" rizzo immediatamente le antenne per verificare la credibilità della fonte. In questo caso la fonte era più che attendibile.
Ecco i fatti.
Venerdì 27 gennaio, Amedeo Balbi, astrofisico dell'Università Tor Vergata e accreditato divulgatore scientifico – persona con la testa fra gli astri ma con i piedi ben piantati nel terreno delle scienze esatte e, pertanto, realista come me – metteva in circolazione un tweet del Senatore americano Bernie Sanders (democratico, socialista, che ha cercato di contendere a Hilary Clinton il ruolo di candidato presidenziale). Il tweet che diceva testualmente: «NON CI SONO ALTERNATIVE AI "FATTI". Una società moderna non può sopravvivere se le decisioni non vengono prese se non alla luce della ricerca basata sulle EVIDENZE». 
«Ah, però!» mi sono detto «Ma allora si può! Anche i politici ci possono arrivare!». Se la ricerca basata sulle evidenze è in grado di mostrarmi i "fatti" nella loro limpida chiarezza e nella loro pura e neutrale essenza, non ci resta che studiare scientificamente i fatti per trovare soluzioni coerenti con quei medesimi fatti e con le cause che li hanno determinati.

Mentre accarezzavo l'illusione che questa fosse la strada giusta, ecco che mio figlio  scienziato realista come me – mi mette sotto il naso la seconda sollecitazione e mi dice: «Guarda qua! In questo grafico c'è la dimostrazione evidente e palese che, dall'introduzione dell'Euro, i prezzi al consumo sono aumentati solo del due percento all'anno! Chi vuole uscire dall'Euro non conosce i fatti nudi e crudi. Chi dice che l'euro ha fatto troppo aumentare i costi ha una percezione sbagliata di come stanno le cose. Basterebbe mostrare alla gente grafici come questo e la gente si renderebbe immediatamente conto che certe percezioni sono sbagliate».

Da Il Post (8 gennaio 2017)

Penso: «Come si fa a non essere convinti dalla robustezza e dalla evidenza di questo approccio?». Mentre mi cullo in questa illusione ecco, però, che interviene Francesca, antropologa attenta osservatrice dei costumi e dei comportamenti umani: «Già», dice, «peccato, però, che la gente abbia serie difficoltà a interpretare i grafici scientifici e che sia intimorita piuttosto che attratta da questi, e che si fidi molto di più delle proprie impressioni. Se un giorno un paio di scarpe costa cinquanta mila lire e il giorno dopo, con l'introduzione dell'euro, le stesse scarpe costano cinquanta euro (pari a 96.813 vecchie lire), l'impressione che ne ricava è che i prezzi sono raddoppiati: e questa non è una falsa percezione. Poco importa che la colpa sia dello scarpivendolo e non dell'euro. Quello che rimane in mente, con tutti i suoi connotati emotivi, è la relazione temporale tra l'introduzione dell'euro e il raddoppio dei prezzi, anche se la relazione temporale non equivale a una relazione causale. Sono le percezioni emotive a rimanere in mente, fallaci o meno che siano, e non c'è grafico scientifico che le possa rimuovere!».

Divorato dal dubbio che queste parole hanno instillato nella mia mente, apro La Lettura di domenica 29 gennaio che mi fornisce la terza e ultima sollecitazione. A pagina 30, trovo l'articolo "Il DNA. Da Mendel alla pecora Dolly" scritto da Lauretta Colonnelli in occasione dell'apertura della mostra Il DNA. Il Grande Libro della Vita da Mendel alla Genomica che si tiene al Palazzo delle Esposizioni di Roma fino al 18 giugno 2017. 
Nell'articolo si citano le parole di Fabrizio Rufo, docente di Bioetica all'Università La Sapienza, il quale afferma: «Per fortuna, nel dibattito pubblico e istituzionale, si sta finalmente diffondendo la consapevolezza che bisogna tentare di costruire un senso di appartenenza a una comunità aperta ed inclusiva che sappia [...] anche gestire la complessità dell'innovazione scientifico-tecnologica. Il coinvolgimento pubblico con la scienza diventa [...] anche uno strumento per favorire le integrazioni tra i linguaggi di esperti e non esperti per estendere la democrazia e le sue garanzie ai discorsi scientifici». 
Mi sono detto «Ma allora si può! Anche i politici ci possono arrivare!». Per quanto la frase "estendere la democrazia e le sue garanzie ai discorsi scientifici" abbia troppi e troppo complessi livelli di interpretazione per suonare facile alle mie orecchie, il succo del discorso del Prof. Rufo mi pare riecheggiare la necessità di porre i "fatti" scientifici al centro dell'interazione tra chi questi fatti li produce, chi li interpreta e li divulga cercando di renderli comprensibili ai più, e chi non deve prescindere da tali fatti per trovare le necessarie risposte politiche ed economiche ai problemi che si rispecchiano in quei medesimi "fatti". Rufo punta l'indice in direzione dell'interazione "tra i linguaggi di esperti e non esperti". Secondo me, però, il problema più grosso sta assai più a monte di quello – di per sé molto serio – dei linguaggi. Il problema che sta a monte riguarda l'educazione, la formazione e l'informazione (in cui sono implicate tanto la scuola quanto la comunicazione mediatica) che, palesemente, non sono in grado di fornire ai più gli strumenti necessari per appropriarsi compiutamente (vale a dire, riconoscere e comprendere) i cosiddetti "dati scientifici" anche quando questi sono onesti e onestamente esposti con un linguaggio appropriato. Il problema, pertanto, è un problema cognitivo, intendendo con questa parola la capacità di riconoscere e di mantenere separati e distinti "il mondo dei dati" (i quali vanno verificati e giudicati, sempre e comunque, con spirito critico) e "il mondo delle impressioni" (quel mondo spesso fallace che ci fa credere che il nostro tram sia sempre in ritardo, o che nostro figlio sia sempre l'ultimo a uscire da scuola, specie se abbiamo premura, o che piova sempre nei fine settimana in cui avevamo pianificato una gita, o che la nonna si ammali sempre quando dobbiamo andare in ferie). Un aspetto cognitivo rilevante è che i "dati" (veri o falsi che siano) sono prodotti da "altri", non ci appartengono in prima persona e pertanto hanno una bassa carica emotiva (una rilevante eccezione è quella di alcuni dati che nascono "falsi" e che sono stati artatamente costruiti includendovi contenuti emotivi proprio per impressionarci: parlo delle classiche bufale, molto spesso spacciate per vera verità). Al contrario, le "impressioni" sono "nostre", derivano dalle nostre esperienze anche dure o dolorose e hanno, ovviamente, un'alta carica emotiva


Così, i dati prodotti da "altri" risultano quasi estranei, siamo pronti a dubitarne, entrano da un orecchio ed escono dall'altro. Le nostre impressioni sono vive, sono vere e permangono immortali nella nostra memoria. Una mente che non si è allenata per tenere ben separati i dati e le impressioni propenderà sempre per le impressioni. Nella mente di molti, il sovra-dominio delle impressioni provoca una caduta verticale del valore e del peso specifico dei "fatti".  Ciò che, assecondando la vena del realismo ingenuo (al quale attingo tuttora per alcune alcune delle mie illusioni), sembra cosa semplice e utile da fare (per esempio proporre dei dati chiari, onesti e ineccepibili), nella realtà dei fatti dell'umano sentire può rivelarsi controproducente.  

La fine del XIX secolo ha rappresentato il vertice massimo dell'idea di progresso correlato con le applicazioni pratiche del sapere tecnico e scientifico: l'Esposizione Universale di Parigi del 1900, che voleva rappresentare tale idea di progresso, ha registrato ben cinquanta milioni di visitatori. L'dea di "modernità" del XX secolo era fortemente associata e debitrice al sapere scientifico. Il destino della Seconda Guerra Mondiale era stato deciso dalle idee dei fisici teorici; la penicillina aveva sconfitto le infezioni; la TBC era diventata curabile; Jonas Salk aveva debellato il flagello della poliomelite; nell'immaginario collettivo Albert Schweitzer rappresentava il simbolo del progresso scientifico che portava la salute nei paesi più poveri; il Dott. Kildare (16 film negli anni '40 e 2 serie TV negli anni '60), ben più del Dott. House, rappresentava l'icona assoluta dell'atto salvifico da parte del medico. Negli anni '50, dopo il lancio dello Sputnik, lo spazio diventava terreno di conquista per una umanità che guardava con ottimismo al progresso. Ad un certo punto, tutto questo slancio si è sgonfiato. Secondo me, l'ultimo episodio di franco, universale ed entusiastico ottimismo nei confronti dell'agire scientifico coincide col primo trapianto di cuore effettuato a Città del Capo il 2 dicembre 1967 da Christiaan Barnard. Dopo di ciò, l'entusiasmo per la scienza comincia a scemare. Eppure, negli ultimi cinquant'anni i progressi scientifici sono stati strabilianti e miliardi di uomini ne hanno beneficiato. Forse la mole dei successi ha seminato nella gente l'idea di un eccessivo potere nelle mani degli scienziati. Forse la rivoluzione del 1968 ha dato il via a un'ondata di riflessione critica nei confronti del potere e dei poteri (e tra questi il potere della scienza). Forse il linguaggio degli scienziati è diventato incomprensibile ai più. Forse, ciò di cui si occupano gli scienziati e quali sono i loro scopi è diventato troppo complicato e troppo poco comprensibile. In questo, gli uomini di scienza hanno le loro belle responsabilità. Forse, ciò che è poco comprensibile diventa, ipso facto, sospetto. Sui motivi di questa involuzione ci sarebbe molto da discutere. Ciò che appare evidente è che mentre la "modernità" aveva accompagnato l'agire scientifico con tutto il suo sostegno e tutto il suo entusiasmo, la "postmodernità" guarda all'agire scientifico con sospetto, con riluttanza, con diffidenza, con paura e con crescente timore complottistico. Questa inquietante paura postmoderna riporta gli echi di un medioevo che credevamo sepolto per sempre, oppure ci lascia intravedere lo spettro di un medioevo prossimo venturo (per dirla con le parole di Roberto Vacca) per nulla rassicurante. 
Il medioevo Prossimo Venturo (Romanzo, 1971)