venerdì 25 maggio 2018

SULLE ORIGINI DEL LINGUAGGIO (secondo me) - POSTILLA

In due post pubblicati qualche settimana fa ho sostenuto l'opinione che il linguaggio poggi le proprie basi su una sintassi naturale che consente di mettere ordine e dare un senso a ciò che si vede e a ciò che si pensa

A sostegno di questa opinione porto ora due piccoli contributi. Uno (ancorché doppio) risale alla storia della filosofia. Il secondo è più recente (più concreto e significativo rispetto ai rimandi filosofici) ha a che fare coi processi cognitivi nell'ambito della complessa condizione clinica nota come spettro autistico.  

Il sostegno filosofico è alquanto antico e deriva da Aristotele, il quale afferma che "l'anima non pensa mai senza immagini" (De anima, 431a). Senza percezione, afferma Aristotele, non si potrebbe avere alcun apprendimento intellettuale: il pensare avviene per immagini e grazie alle immagini.  Da par sua, Tommaso d'Aquino affermava cheNon vi è niente nel nostro intelletto che prima non sia stato nei nostri sensi”. 

L'altro elemento che porto qui a sostegno della mia ipotesi l'ho appreso in questi giorni visitando una bella mostra alle Gallerie d'Italia di Milano: L’ARTE RISVEGLIA L’ANIMA, sull'utilizzo dell'arte come mezzo di espressione e comunicazione da parte delle persone con disturbi dello spettro autistico. 

Manifesto della mostra L'Arte Risveglia l'Anima
Nel catalogo della mostra si legge una affermazione di Temple Grandin, scrittrice e professoressa della Colorado State University e affetta dalla sindrome di Asperger, una delle varianti meno invalidanti dello spettro autistico, la quale parla di un modo di funzionare  della mente molto importante dal punto di vista cognitivo e che essa definisce proprio come "pensiero visivo: un pensiero fatto di immagini, in cui anche i concetti più astratti vengono compresi solo se tradotti a livello visivo". A questo tema la Grandin da dedicato un intero libro: Pensare in immagini e altre testimonianze della mia vita di autistica (Erikson, 2001).

L'arte Risveglia l'Anima: stralcio dal catalogo


venerdì 18 maggio 2018

UNA RIVOLUZIONE IN ATTO – L’EDITING GENOMICO

Sul Corriere della Sera di martedì 15 maggio è apparso un articolo in cui Anna Meldolesi parla in modo estremamente chiaro di una promettente quanto rivoluzionaria tecnica di manipolazione genica – la cosiddetta CRISPR – e ne discute con Jennifer Doudna, la ricercatrice che assieme a Emmanuelle Charpentier, l’ha messa a punto.[1] 



Anna Meldolesi ha la capacità di rendere comprensibili aspetti assai complicati della scienza, evitando i tecnicismi ed arrivando al cuore del problema. Non per nulla, col suo libro E l’uomo creò l’uomo: CRISPR e la rivoluzione dell’editing genomico (2017) è risultata tra i finalisti del prestigioso Premio Galileo, una manifestazione culturale che intende valorizzare l’eccellenza della divulgazione scientifica. Questo per dire che l’articolo di cui sopra merita una attenta lettura da parte di chi ama osservare da vicino le dinamiche e i progressi della scienza.

Vediamo innanzitutto che cos’è e a che cosa serve questa nuova tecnica. In buona sostanza la tecnica interviene sulla sequenza del DNA, correggendone alcuni tratti. Se rappresentiamo il DNA come una stringa di lettere in cui sono contenute informazioni, la tecnica dell’editing consente di identificare le singole lettere e di sostituirne alcune: l’idea è quella di riscrivere “parole” che contengono informazioni “sbagliate” in modo che, una volta corrette, sia ripristinata l’informazione “giusta”. La giornalista del Corriere ha preso ad esempio l’editing di WORD®, il più diffuso programma per scrivere documenti. Non si tratta di un’operazione di taglia e incolla ma di una più sofisticata, completa e definitiva operazione di trova e sostituisci”. Una delle più rilevanti differenze rispetto alle “convenzionali” tecniche di ingegneria genetica è che questa tecnica di “trova e sostituisci” consente di sostituire le lettere sbagliate non solo nelle cellule somatiche (cosa che la biologia molecolare convenzionale è in grado di fare) ma anche nelle cellule germinali. Ciò significa che una modificazione artificialmente apportata può essere ereditata dalla progenie. Significa che un certo difetto genetico (per esempio quello responsabile della talassemia) non viene corretto solo nel paziente sottoposto alla procedura di editing, ma può essere completamente rimosso in modo da non essere trasmesso ai discendenti. In sé, questa cosa è meravigliosa: il problema è che le conoscenze scientifiche disponibili non sono ancora in grado di garantire che le modificazioni indotte artificialmente non portino con sé conseguenze inattese e impreviste. Da qui i dubbi e il dibattito etico associati all’uso di questa nuova tecnica.
A questo proposito, nell’articolo di Anna Meldolesi, si sottolineano due elementi molto importanti anche dal punto di vista epistemologico. Si tratte di due aspetti che rappresentano quasi una novità inedita del modo di fare scienza nel mondo contemporaneo che, si sa, è estremamente competitivo. Jennifer Doudna afferma infatti che, forse per le enormi potenzialità della tecnica, lo sforzo di ricerca su CRISPR è planetario e collaborativo”: in un mondo tanto competitivo e con interessi economici tanto imponenti, la parola collaborativo suona decisamente anomala. Il secondo fatto che viene opportunamente sottolineato è che, in relazione al potenziale impiego della tecnica sugli embrioni umani, la stessa Doudna ha suggerito di applicare una moratoria su tale uso e ha proposto un’iniziativa per discutere le problematiche bioetiche della nuova tecnologia”: da questa discussione è nato l’International Summit on Human Gene Editing. È decisamente onorevole il fatto di discutere di etica prima di applicare una tecnica o una tecnologia sulle cui conseguenze non si hanno certezze consolidate. Tuttavia, sappiamo che molti scienziati non resistono alla tentazione di “osare” e di “essere i primi” (l’esperienza di Christiaan Barnard sul trapianto cardiaco – del quale si è da poco ricordato il cinquantenario – ne è un esempio eclatante ancora vivo nel ricordo di molti). Il progresso della scienza, si dice, si serve spesso di coraggiosi, e talvolta avventati, atti pionieristici. Tant’è che alcuni scienziati non hanno resistito ad applicare questa tecnica su embrioni umani. Il dibattito etico rimane aperto.

3 dicembre 1967: Christiaan Barnard entra nella storia della medicina
Un altro aspetto intrigante è che questa tecnica, così come molte altre (non ultima quella dell’amplificazione del DNA che ha consentito lo sviluppo del Progetto Genoma), non è derivata da un’invenzione umana ma dall’adattamento all’impiego scientifico di meccanismi che nel corso di centinaia e centinaia di milioni di anni l’evoluzione biologica ha messo a punto in alcuni microorganismi. L’editing genomico è infatti stato “rubato” a batteri che hanno sviluppato sistemi di difesa contro i virus che li infettano. Questi batteri utilizzano meccanismi enzimatici che inattivano il DNA di virus infettanti e l’uomo si è impadronito di tali meccanismi. Che la Natura non sia solo l’oggetto su cui lo scienziato interviene talora in modo aggressivo, ma sia anche un costante elemento di ispirata illuminazione, rimane per me un fatto che ha un fascino particolare.

Un’ultima considerazione mi sembra non meno significativa delle altre: la rivoluzione dell’editing genomico porta il nome di due donne. Un verso della canzone Donna Donna (LINK YOUTUBE) composta da Joan Baez nel 1960 recitava: “Why don't you have wings to fly with like the swallow so proud and free” (perché non ha le ali come le ha la rondine così fiera e libera). Ma i tempi stanno cambiando, recitava Bob Dylan negli stessi anni (The Times They Are a-Changin'; 1964: LINK YOUTUBE). Le ali, le donne le hanno messe, eccome! Con la loro rivoluzione scientifica Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier sono qui a dimostrarlo in modo inconfutabile. E con le loro preoccupazioni etiche esse dimostrano anche di saper guardare lontano, e non solo nel tempo o nello spazio.
Da sinistra: Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier 





[1] L’articolo in questione è anche disponibile sul blog CRISPeR MANIA cliccando su questo LINK.   

venerdì 11 maggio 2018

DOMANDE E RISPOSTE SULL'EVOLUZIONE - X^ parte

In questa decima puntata di Domande e Risposte sull’Evoluzione, si discute della presunta neutralità della scienza e delle sue teorie e dei pregiudizi che generano una resistenza ideologica, anche dal punto di vista etico, alla teoria dell'evoluzione.   

Domande e Risposte
# 16

Domanda 16. L’etica è un’espressione del pensiero che cerca di distinguere le azioni e i comportamenti (ma anche i pensieri) che comportano una scelta nel campo del bene, del male, o nel campo (se esiste) della neutralità. Per stabilire se un atto, un comportamento, un pensiero sono rivolti al bene, al male o se cadono in terreno neutrale, bisognerebbe definire e delimitare in modo preciso gli ambiti del bene e del male. L’etica si occupa di questo o meglio, le etiche si occupano di questo perché ci sono numerosi tipi di etica in relazione ai presupposti ideali, teorici o pratici a cui ci si richiama (etica utilitaristica e consequenzialista, ermeneutica, argomentativa, cristiana, …). Quindi, i confini del bene e del male sono imprecisi e soggettivi, dipendendo dallo sguardo chi di osserva.   

L'arduo problema del bene e del male

Tendenzialmente la scienza afferma di essere in terreno neutrale assumendo che la ricerca delle regole secondo le quali funziona il mondo non ha, in sé, alcuna connotazione etica, mentre l'avrebbe ogni comportamento, scelta o azione compiuta in nome di una determinata legge scientifica. Dal punto di vista della scienza, il fatto di “agire in nome di una legge scientifica” rappresenta però una sorta di illecito ideologico. In campo etico, la responsabilità non può che essere individuale e personale, anche se l’azione è frutto di un'impresa collettiva ed è basata su argomentazioni scientifiche. 
Alla interpretazione di un’evoluzione biologica assoggettata a forze selettive esterne - in cui le variazioni che conferiscono maggiore adattabilità sono considerate migliori di altre meno vantaggiose - sono state attribuite valenze etiche anche molto forti (es. sociobiologia). Significativamente, una valenza etica per lo più di segno negativo viene ascritta all’evoluzionismo darwiniano da coloro i quali sono impegnati su posizioni ideologicamente molto marcate (es. fede religiosa, ideologia politica). In questi casi si ha l’impressione che il pre-giudizio etico di chi interpreta il darwinismo sia antecedente alla attribuzione di una valenza etica al darwinismo stesso. Non si può però sottovalutare il fatto che l’evoluzionismo darwiniano sia figlio, oltre che di una mente straordinaria, anche di un luogo e di un’epoca: l’Inghilterra vittoriana. Nell’Inghilterra vittoriana non c’era gentleman inglese (e probabilmente neanche nessun inglese in generale) che non fosse aprioristicamente convinto che all’apice dell’albero – o della scala – della vita fosse collocato lo stesso gentleman inglese. Non c’era inglese che non fosse convinto che se il mondo era governato dall’uomo bianco (in particolare inglese) doveva pur esserci una ragione naturale, se non addirittura una chiara disposizione divina. 
 
L'anglo-teutonico al vertice dell'evoluzione

Le idee malthusiane (di matrice socioeconomica) furono utili a Darwin per definire un modello o un meccanismo all’interno del quale collocare l’evidenza che le specie mutano, si insediano, dominano e si alternano in territori anch’essi sottoposti a un continuo divenire, come aveva dimostrato Charles Lyell, famoso geologo e amico intimo di Darwin. Pertanto, la teoria darwiniana non nasce neutrale dal punto del condizionamento ideologico; non si può quindi evitare che alcuni vi leggano contenuti ideologici ed etici.
In conclusione, ci sono teorie o assunti scientifici che nascono in territorio neutrale e non suscitano tensioni di carattere ideologico-filosofico (es. teorema di Pitagora; leggi della termodinamica; gravitazione universale; relatività ristretta o generale). Altre teorie, pur nascendo in territorio quasi-neutrale, suscitano invece tensioni ideologiche ed etiche (es. modello copernicano; principio di indeterminazione). Altre ancora, come il darwinismo, che nascono in un territorio già marcato dall’ideologia, suscitano interpretazioni ideologiche ancora più forti. La domanda è: alla luce di quanto di nuovo si è imparato sull’evoluzionismo in termini di genetica, di selezione e di adattamento, è ancora possibile marcare il terreno della teoria darwiniana con pregiudizi ideologici? E se ciò avviene, quali conseguenze possono avere tali pregiudizi sul progresso neutrale delle conoscenze sull’evoluzione dell’uomo?


Risposta 16 Questa è una domanda interessante, che può essere riassunta così: le resistenze ideologiche alla teoria darwiniana derivano da considerazioni etiche? Prima di rispondere vorrei fare qualche osservazione preliminare. Infatti, la parte iniziale della domanda sembra esprimere un punto di vista ispirato a quel relativismo tanto deplorato dal Papa.[1]
Vorrei esprimere la mia opinione sull’ argomento che, in parole povere, è questa: esistono un bene e un male assoluti, ma gli uomini possono essere discordi nella loro ricerca verso la definizione di questi concetti. Da ciò l’apparenza del relativismo

Dal mio punto di vista, la scienza in quanto tale e distinta dalle sue applicazioni, come giustamente detto nella domanda, è eticamente positiva perché è una attività conoscitiva e allargare le conoscenze è un bene. Questo vale per tutte le teorie scientifiche, compresa quella dell’evoluzione biologica. So bene che vi sono alcuni integralisti religiosi che non condividono questa idea, ma mi conforta il fatto che persone non meno religiose non hanno nulla da obiettare.


Se la conoscenza è sempre dalla parte del bene
E, tuttavia, è vero che nei riguardi del pensiero darwiniano esistono, come ho già ricordato, pregiudizi che non valgono per altre teorie scientifiche. A questo proposito, vorrei raccontare una esperienza che mi occorse qualche anno fa a Verona, a un congresso su “Medicina e Filosofia”, organizzato dalla Facoltà di Filosofia dell‘Università di quella città. In una conversazione informale con due colleghi professori di Medicina, li sentii proclamare concordi la loro antipatia per gli evoluzionisti, perché definiti dogmatici”. Ebbene, dove sta in questo caso il dogmatismo? Nel fatto che aderissero a una teoria scientifica logicamente coerente e non contraddetta dall’evidenza empirica? Ma questo lo fanno tutti gli studiosi di scienza quando accettano delle teorie. È forse dogmatico un fisico che crede alla relatività generale o al secondo principio della termodinamica? Evidentemente la differenza sta nel fatto che gli evoluzionisti credono in una teoria che crea problemi alla interpretazione letterale della Bibbia, nella quale invece, fortunatamente, di relatività e termodinamica non si parla. Evidentemente, il massimo che i miei interlocutori erano disposti a concedere era che i cosiddetti evoluzionisti dicessero: "Questa teoria della evoluzione biologica è in concordia con i fatti, ma può essere accettata solo come ipotesi, perché potrebbe anche darsi che sia falsa e che sia vero il disegno intelligente". Accettandola invece come si fa per ogni teoria scientifica, e non considerando perciò la teoria della evoluzione biologica in condizione di minorità rispetto alle altre regioni della scienza, i cosiddetti evoluzionisti (tra i quali mi includo) sarebbero stati dogmatici. Ricordo di avere replicato che gli evoluzionisti avrebbero avuto l’obbligo di ripudiare le loro idee solo se fosse emerso qualche fatto che le contraddicesse al di là di ogni dubbio, per esempio – e la mia intenzione era di enunciare un paradosso – se si fosse scoperto lo scheletro fossile di un umano in uno strato geologico di qualche centinaio di milioni di anni fa. “Sono tanto dogmatici gli evoluzionisti” – aveva ribattuto uno dei miei interlocutori – “che anche in questo caso si ingegnerebbero per trovare qualche teoria che spiegasse questa anomalia”. Il punto interessante di questa discussione è che ingegnarsi per trovare una nuova teoria quando una vecchia è falsificata è proprio l’ideale della scienza. 


La Scienza e le metafisica si contendono il sapere
Il punto cruciale, perciò, non credo che riguardi l’etica, ma la possibilità di dare, come si è fatto in passato, interpretazioni metafisiche di fenomeni fisici ritenuti impossibili da spiegare scientificamente, come sarebbe il caso della vita biologica. Opporsi alla teoria della evoluzione biologica significa confondere la vita biologica con la vita umana. Sono persuaso che la vita umana è qualcosa di più della vita biologica. La scienza non spiegherà mai il senso della vita umana, ma ha già chiarito come è sorta la vita in genere e la teoria darwiniana ha dato una interpretazione di come si è originata, tra le altre, anche la specie Homo sapiens. Questo ha sottratto alla metafisica un territorio che, in realtà, non le appartiene. In realtà, le due teorie, del disegno intelligente e dell'evoluzione biologica, non possono essere messe a confronto perché radicalmente eterogenee. Le resistenze ideologiche dipendono da questo ma, naturalmente, derivano da concezioni equivoche e non sono legittime.


[1] Al momento di questa risposta il pontefice era Joseph Ratzinger.  


venerdì 4 maggio 2018

SULLE ORIGINI DEL LINGUAGGIO (secondo me) - SECONDA PARTE

CHOPPER, AMIGDALE E SINTASSI

Nel precedente post ho immaginato la sintassi come una funzione logica naturale, basilare per l'elaborazione spontanea del pensiero intuitivo, una forma di pensiero strutturato che precede  il linguaggio e che non è esclusivo della specie umana.  

Evoluzione delle pietre scheggiate: dal chopper alla selce.
Tratta da Erlandson J, BrajeTJ. Archaeology and the Anthropocene (2014)

Il linguista Noam Chomsky fa risalire l'origine del linguaggio alla comparsa nella nostra specie di un particolare dispositivo che ha reso possibile la ricorsività che è tipica del linguaggio medesimo. Mentre Chomsky nega un'origine evolutiva di tale dispositivo, il neuroantropologo Terrence Deacon (La Specie Simbolica, Giovanni Fioriti Editore 2001) si richiama all'ipotesi di un transadattamento (exaptation nella dizione originale) alla funzione comunicativa di un dispositivo originatosi ed evolutosi in ambiti diversi da quello linguistico. La mia ipotesi (che richiama le due precedenti) è che tale dispositivo  esista effettivamente, che consista in una funzione logica altamente conservata cui può essere dato il nome di sintassi”, che si sia sviluppato in modo particolare nella specie umana attraverso una lunga evoluzione, co-evolvendo e co-adattandosi a diversi ambiti cognitivi e funzionali tra cui quello del linguaggio.
Tale funzione logica è di importanza vitale per poter interpretare il mondo, per immaginare e pianificare azioni complesse: è una funzione che l’essere umano condivide in vario grado con altre specie. Una funzione logica altamente strutturata senza la quale l'uomo non sarebbe stato in grado - per esempio - di addomesticare il fuoco, conservandolo, trasportandolo, riaccendendolo. Una capacità che ha preceduto di gran lunga l’emergenza del linguaggio. 

Nel post precedente mi ero limitato ad argomentazioni teoriche. Qui vorrei proporre un argomento concreto a supporto dell’ipotesi che quella sintassi che ha reso possibile il linguaggio di Homo sapiens fosse già presente nella stirpe umana prima che il sapiens medesimo esistesse. Mi riferisco in particolare a Homo erectus che abitava il nostro pianeta già 1.8 milioni di anni fa e che è scomparso (rimpiazzato da specie più evolute) circa 350.000 anni fa. Il fatto che almeno 800.000 anni fa Homo erectus abitasse le isole indonesiane di Bali, Lombok, Timor, Flores e altre, testimonia del fatto che questo nostro antenato fosse già in grado di navigare (verosimilmente con zattere di tronchi o con canoe) da un’isola all’altra per bracci di mare piuttosto ampi. Questa ipotesi tiene conto dei dati geologici e climatologici che escludono che tali isole fossero unite una all’altra o alla terraferma (Robert G. Bednarik. The origins of navigation and language. The Artefact 1997; 20: 16-56). Per costruire una zattera e per decidere di mettersi in mare alla ricerca di qualche cosa di ignoto ci vuole molta immaginazione, organizzazione, pianificazione, e saper fare. Il saper fare include anche il saper fare gli strumenti necessari, per esempio, per preparare funi, stuoie, pelli, etc. utili alla costruzione di una zattera o per scavare tronchi di palma per farne canoe. Per fare ciò è necessario uno strumento battente e tagliente: l’amigdala (o pietra scheggiata), la cui forma più antica è chiamata “chopper”, attrezzo d’uso comune per Homo erectus. In anni più recenti (circa 130.000 anni fa), Homo erectus ha navigato per il Mediterraneo colonizzando alcuni siti sull’isola di Creta (Thomas F. Strasser et al. Stone age seafaring in the mediterranean: evidence from the plakias region for lower palaeolithic and mesolithic habitation of Crete. Hesperia 2010; 79: 145-190). 

Ma che relazione c’è tra il linguaggio e la capacità di pianificare e compiere attività complesse? L’assunto è che senza possedere espressioni simboliche e una sintassi linguistica non sia possibile realizzare azioni complesse come costruire zattere e navigare per mare. Questo ha portato a ritenere che per realizzare tutto ciò che è stato capace di fare, Homo erectus dovesse già possedere una certa forma di linguaggio, cosa che anticiperebbe, e non di poco, l’emergere della facoltà linguistica in Homo sapiens. La tesi è interessante. Ma forse, e questa è la mia ipotesi, non è indispensabile possedere un protolinguaggio per fabbricare una zattera o un chopper. Oltre a mani molto ben strutturate ed obbedienti (essenziali per l’impresa), ciò che serve veramente è una sintassi logica che renda possibile pianificare l’impresa nella mente. Tra l’altro, la questione delle mani qui appena accennata non è per niente secondaria per la questione del linguaggio, poiché associare significati ai gesti è già di per sé un protolinguaggio che attinge alla medesima sintassi di cui sopra, coadattandola alla funzione comunicativa.   

Chopper: modlità d'uso
Per maneggiare un chopper nel modo indicato nella figura (come arma, per tagliare, per percuotere, per scuoiare), bisogna innanzitutto procurarsene uno. In natura è possibile trovare pietre scheggiate pronte per l’uso, ma è importante essere in grado di fabbricarle. Per fare ciò è necessario immaginare la forma più idonea per i diversi utilizzi (vedi figura qui sotto). 

Chopper diversi per forma e utilizzo 

Dopo di ciò, è necessario procurarsi il materiale idoneo e trovare il modo per dare alla pietra la forma desiderata per trasformarla in “strumento”.



Scheggiatura del chopper 
Nel periodo Acheulano del paleolitico inferiore (750.000-120.000 anni fa circa) – epoca durante la quale molto probabilmente il linguaggio non poteva neppure essere articolato – si producevano oggetti come quelli illustrati qui sotto e risalenti a circa 650.000 anni fa. 


Amigdale: fonte http://www.antiqui.it/doc/preistoria/pinf3.htm 
Indipendentemente dal voler affermare che una qualche forma di linguaggio era già presente in Homo erectus, è certo che egli usava la sintassi per pensare, pianificare e “fare” cose, prima ancora di essere in grado di dare un nome alle cose medesime.

Nel Paleolitico medio (300.000 – 120.000) si è passati dal chopper a forme un po' più regolari e con scheggiature sempre più sofisticate. Poiché, l’evoluzione da chopper ad amigdala e da amigdala a selce (vedi l’immagine di apertura del post) è andata di pari passo con la complessità delle sepolture – dove gli oggetti posti accanto alla salma, amigdale comprese, avevano funzione simbolica e rituale – viene naturale pensare che l’evoluzione culturale, quella del linguaggio e quella dei manufatti siano andate di pari passo. Nei ritrovamenti archeologici del paleolitico compaiono anche amigdale fatte con materiali inadatti all’uso strumentale, nonché amigdale dalla forma zoomorfa, ed altre ancora abbinate a oggetti di natura decorativa, facendo pensare che l’uso estetico di alcuni manufatti, amigdala compresa, accompagnasse l’uomo nel suo progresso simbolico e cognitivo. Secondo la mia ipotesi, approfittando di altre complesse evoluzioni somatiche e neurali, la parola è venuta poi, dando splendida forma a un procedimento originariamente sintattico.

Concludendo

La sintassi naturale è una funzione logica che ci consente di costruire una relazione coerente tra le cose che cadono sotto i nostri sensi, dando loro ordine e significato. Quella stessa sintassi consente di dare ordine e significato a sequenze ordinate di azioni che si intendono svolgere per realizzare uno scopo: ciò consente di immaginare e pianificare azioni complesse. Il linguaggio utilizza quella stessa sintassi per dare ordine, significato, e scopo a sequenze di azioni dell'apparato fonatorio che ci consentono di dare forma ai pensieri e di condivideli con altri.   

La sintassi, come strumento di pensiero e come ingrediente del saper fare, ha preceduto la fabbricazione delle pietre scheggiate. Queste, a loro volta, hanno dato forma e corporeità alla sintassi fino ad arrivare al punto da distillarne un senso estetico distinto dall’uso pratico e dove le regole stilistiche sono state mutuate da quelle sintattiche. Quella sintassi che ha consentito tutto ciò è la stessa medesima e immutata sintassi che l’uomo odierno utilizza per dare senso, per esempio, all’arte contemporanea, anche nelle sue espressioni più astratte e concettuali: è sempre quella stessa sintassi lì. Dalla ben nota FONTANA di Duchamp a Anish Kapoor e a tutti gli altri, è la nostra sintassi naturale che dà ordine e significato a ciò che ci viene detto o mostrato.

Anish Kapoor: Cloud Gate Chicago (2006)