venerdì 18 agosto 2017

INFOSFERA: AD OGNUNO LA SUA

Oggi ho incontrato una parola che non conoscevo: Infosfera. Da Wikipedia apprendo che questa voce appartiene alla terminologia tecnica della filosofia dell’informazione, disciplina che non ho mai frequentato e di cui ignoro tutto. Apprendo anche che il professor Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell'informazione all'Università di Oxford, nel corso di un’intervista su Il Sole 24 Ore del 24 maggio 2010, ha definito l’Infosfera come la globalità dello spazio delle informazioni che include il cyberspazio (Internet, telecomunicazioni digitali) e i mass media classici”.

INFOSFERA - immagine metaforica
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La parola mi è venuta incontro all'interno di un interessante articolo di Claudio Tuniz e Patrizia Tiberi Vipraio intitolato: Le tre domesticazioni: l’uomo sugli animali; l’uomo sull’uomo; il computer sull’uomo (La Lettura #298, domenica 17 agosto). Nell’articolo si parla di alcuni meccanismi psicologici attraverso cui le strutture gerarchiche riguardanti la diade autorità/assoggettamento si autoproducono e si automantengono su base utilitaristica. In una prospettiva evoluzionistica, gli autori paventano il prodursi di una nuova gerarchia di cui i primi sintomi sono già in atto: si tratta di una relazione di autorità/assoggettamento in cui un’intelligenza artificiale sempre più potente, sempre più capace di “imparare” dalle conseguenze delle proprie scelte e dalla disponibilità di un enorme quantità di informazioni (Big Data), possa prendere il sopravvento sull’uomo, invertendo il rapporto dominanza/sudditanza che ha visto fino ad oggi l’uomo in condizione dominante rispetto alle macchine. In questo caso, uno dei problemi potrebbe anche essere quello che all’uomo, sollevato dalle pesanti responsabilità di dover prendere decisioni (lo faranno le macchine) e ampiamente gratificato dalle “coccole” che le macchine impareranno a somministrargli, non solo rifiuterà di accorgersi dell’inversione del rapporto dominanza/sudditanza, ma potrà accettarlo volentieri come una conquista, trovando la cosa utilitaristicamente conveniente. A questo punto di non ritorno, però, non siamo ancora arrivati e questo epilogo sembra decisamente lontano (e perciò non ce ne preoccupiamo abbastanza).

Molto più vicino, però, è un end-point intermedio cui siamo piuttosto prossimi. Ed è proprio a questo proposito che gli autori dell'articolo introducono il concetto di infosfera. Riporto qui, per completezza, l’intero brano dell’articolo: Che succederà quando saremo sempre più isolati all’interno della nostra infosfera, in quella specie di scafandro mentale, in cui – grazie ai motori di ricerca, ai blog e ai social network calibrati su di noi –  scambieremo idee solo con chi condivide le nostre? Riusciremo ancora a mediare i nostri conflitti, prima di saltarci alla gola? Viene da pensare che la radicalizzazione politica che osserviamo nel mondo contemporaneo sia anche il frutto di questo nostro isolamento all’interno di un sistema informativo personalizzato”. 


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La radicalizzazione politica che viaggia attraverso la rete, aggressiva e irragionevole come non mai, fa già parte del nostro mondo ed è già quasi una preoccupante abitudine. Ciò significa che noi (una parte di noi, vale a dire “loro”) è già totalmente immersa in una infosfera chiusa e personalizzata che comunica solo con se stessa. Questo è inquietante. Se ciò accede, vuol dire che chi cade prigioniero della propria sfera di informazioni, ci trova una qualche soddisfazione: ci trova una gratificazione tale da negargli anche il semplice desiderio di non considerare necessariamente come nemica e aliena ogni forma (idea, persona, ecc.) che si trovi al di fuori di essa. 

Nel corso del loro articolo – in modo particolare quando parlano della domesticazione dell’uomo sull’uomo – gli autori fanno riferimento ai riti, alla magia, alla fascinazione del canto e delle riunioni tribali, come a meccanismi che scatenano sensazioni di gratificazione e di appartenenza: queste sensazioni sono indotte dalla secrezione di neuromodulatori come la serotonina, l’ossitocina, la dopamina, le endorfine. Il cervello produce e usa queste sostanze per abbinare eventi a sensazioni e ad emozioni profonde: è per questo che certi eventi vengono categorizzati come belli, brutti, orrendi, toccanti, fantastici, travolgenti, irresistibili e così via. Questi neuromodulatori sono gli stessi che inducono dipendenza a varie sostanze: alcol, droghe, etc.
La domanda, a questo punto, potrebbe essere: "possiamo diventare dipendenti dalla nostra infosfera tanto da non poterne fare a meno e da condizionare ad essa ogni nostra azione?" La risposta potrebbe essere decisamente positiva. È stato dimostrato che la dopamina è implicata in dipendenze dovute a comportamenti specifici: tra questi la ludopatia e la dipendenza da internet o da videogiochi. La dopamina e i suoi recettori nella zona del cervello chiamata nucleo striato modulano il senso di gratificazione collegato con l’uso e l’abuso “ricreativo” di internet e viedogiochi. Il ruolo delle endorfine e della dopamina è rilevante nell’indirizzare le relazioni sociali. L’abuso di internet e dei social network ha aperto un intero nuovo capitolo nello studio delle dipendenze (Daria J.Kuss, Mark D. Griffiths. Social Networking Sites and Addiction: Ten Lessons Learned [URL dell'articolo originale]) tanto che, per esempio, per quanto riguarda Facebook è stata addirittura creata una gradazione che riguarda la gravità della dipendenza (Cecilie S. Andreassen et al. Development of a Facebook Addiction Scale [URL dell'articolo originale]). 
Riscontri scientifici a parte (che per loro natura potranno anche essere eventualmente contraddetti), a tutti fa piacere ricevere auguri, complimenti, inviti, commenti positivi (i famosi like) alle proprie affermazioni. Se la nostra rete è autoreferenziale ed è disegnata a pennello sulla nostra pelle, questa non ci contraddirà mai  e supporterà ogni nostra idea e ogni nostra gratificazione: saremo sempre più gratificati ad ogni nostro nuovo accesso: non potremo più farne a meno. Ci assoggetterà. Ci piacerà.





lunedì 7 agosto 2017

IL TEMPO - UNA RINNOVATA OSSESSIONE

Il tempo, inteso come idea, come categoria, e come dimensione attraverso cui l’intero universo si muove, in questi giorni (e quando si parla di giorni si ha a che fare col tempo), sembra essere diventata una delle maggiori preoccupazioni della fisica e della filosofia. Questa faccenda del tempo ha sempre interessato i filosofi (da Platone a Vico, da Sant’Agostino a Kant). La questione sembra ora preoccupare, oltre ai fisici e ai filosofi, l’intera nazione italiana. A giudicare dai titoli dei libri più venduti in Italia, L’Ordine del Tempo (Adelphi) e Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), entrambi scritti dal fisico Carlo Rovelli, sono rispettivamente al secondo e al terzo posto della classifica della saggistica italiana, preceduti solo da Avanti, perché l’Italia non si ferma (Feltrinelli), recentemente pubblicato da tale Renzi Matteo.


Il tempo ci sembra un concetto del tutto intuitivo. Una cosa – per esempio la nostra persona – nasce, vive, invecchia, muore. È evidente che questa sequenza di fatti molto evidenti dipende dall’esistenza del tempo e non potrebbe esistere se, a sua volta, non esistesse il tempo a scandire le trasformazioni di qualunque cosa esista nell’universo. I fisici ci fanno capire, a suon di prove provate, che la nostra idea di tempo non è così reale e vera come sembra. Le equazioni che descrivono l’universo nei modelli dei fisici quantistici fanno a meno del tempo. Al posto del tempo, è sufficiente inserire le relazioni reciproche tra i costituenti fondamentali dell’universo e quel modello di universo tiene, facendo a meno del tempo.
Il nostro concetto intuitivo di tempo viene dunque messo in crisi dai fisici. Già Einstein, più di cento anni fa, ci diceva che al variare della velocità, varia anche la velocità con cui trascorre il tempo. Alla velocità della luce il tempo viaggia più lentamente rispetto a chi sta fermo. Va beh, però la velocità della luce per noi comuni mortali è poco intuitiva e, a dir la verità, ci interessa relativamente poco se ad alte velocità il tempo trascorre più lentamente rispetto a noi che ci muoviamo sulla terra a velocità piuttosto lente. Ma facciamo male a dire che la cosa non ci interessa perché, per esempio, tutti i navigatori o i localizzatori GPS dei nostri smartphone non potrebbero funzionare in modo ottimale se i tecnici non tenessero conto della relazione tra velocità di spostamento e velocità del tempo. Ma se questa faccenda del trascorrere variabile del tempo è vera per gli smartphone, allora forse i fisici hanno ragione, e il tempo non è quella cosa cui noi pensiamo in maniera intuitiva. Carlo Rovelli afferma, per esempio, che il tempo può essere una dimensione che emerge, a livello locale, per il verificarsi di particolari condizioni ed è percepito così come viene percepito in base alle nostre modalità cognitive di mettere le cose in relazione tra loro. Egli afferma, per esempio, che nell’universo non esiste il “giù” e il “su”. Giù e su sono categorie del nostro pensare che emergono localmente dal modo in cui noi organizziamo le nostre percezioni (vedi RAI Filosofia a questo LINK). Insomma, la situazione è più complicata di quel che sembra. Quando i fisici (con le loro assunzioni, le loro formule, le loro teorie e le loro dimostrazioni) fanno affermazioni così importanti su una questione così rilevante come quella del tempo e mettono in crisi le nostre umane credenze, entrano in ballo i filosofi a creare costruzioni metafisiche ancora più spiazzanti delle costruzioni dei fisici. Ed è su questa lunghezza d’onda che Kevin Mulligan, professore emerito di filosofia analitica dell’Università di Ginevra – sulle pagine di La Lettura # 297, 6 agosto 2017, p. 10-11 – afferma che, a proposito del tempo, si affrontano e si scontrano ben quattro teorie filosofiche. 


La prima teoria afferma che il presente, il passato e il futuro non sono altro che punti di vista (dell’osservatore) sulla realtà, non parti di essa”.
La seconda teoria prede il nome di presentismo e afferma (un po’ avventurosamente, secondo me) che il presente è un tempo oggettivamente speciale, l’unico in cui qualcosa può essere reale: qualunque cosa esista, esiste ora”.
La terza teoria, l’anti-realismo, è una sorta di teoria prudentemente strumentalista. Dubitando che la fisica sia davvero in grado di dire la verità sulla realtà, e sostenendo che molte delle affermazioni dei fisici si basano su teorie non del tutto dimostrate o dimostrabili, questa teoria sostiene che le affermazioni dei fisici sul tempo dovrebbero essere concepite non come una rivelazione della realtà, ma come un semplice strumento più o meno efficace per manipolarla (questa posizione strumentalista è del tutto analoga a quella che il Cardinale Bellarmino suggeriva a Galileo nel momento del confronto col Tribunale della Santa Inquisizione).
La quarta e ultima teoria e quella che estremizza le conseguenze delle recenti teorie dei fisici, in modo particolare quelle che hanno a che fare con la gravità quantistica (di per sé, la “gravità” è già qualcosa di particolarmente misterioso, anche per i fisici: figuriamoci quanto può essere misteriosa per noi comuni mortali una cosa come la “gravità quantistica”). Questa teoria afferma semplicemente (e un po’ proditoriamente) che il tempo non è un elemento fondamentale della realtà: è un’illusione(questo, a dir la verità, tra il serio e il faceto, lo diceva già Albert Einstein).

Un dubbio, però, mi sta venendo. Non sarà forse che fisici (e filosofi con loro), infastiditi dal non riuscire a mettere le mani su questa anomalia locale che è il tempo per rallentarla o per gestirla a piacimento, piuttosto che ammettere l'ineluttabile finiscono con l'illudersi (illudendoci) che il tempo, in fondo, è solo un'illusione? Einstein, la sua linguacca a chi mostra: al tempo?