domenica 27 dicembre 2020

L'ILLUSIONE DELLA REALTÁ E IL PROF. DI MATEMATICA

Coi tempi che corrono, ci vuol tutta – ma proprio tutta – a diventare un eroe dei giovani se uno di mestiere fa “il Prof. di Matematica”. Eppure, incredibile a dirsi, in questi giorni è successo davvero.


Di recente, un articolo del Corriere della Sera titolava: Enea Montoli … ha trasformato i test per gli studenti in giochi di ruolo: si divertono!”. A seguire, ecco RAI DUE (Caterpillar 10 dicembre) con Massimo Cirri e Sara Zambotti che intervistano il Prof [LINK PODCAST dal minuto 32’ 10’’]. E poi ancora, un intero servizio del TG1 [LINK FACEBOOK]. E non finisce qui. Ieri (27 dicembre), la prestigiosa rivista americana Forbes titola: Making Students Love Math And Physics Through A Videogame? Here’s How An Italian Teacher Did It (Far amare agli studenti la fisica e la matematica usando i videogiochi? Ecco come c'è riuscito un insegnante italiano) [LINK]. Non ha più pace, povero Prof!

Il Prof. di matematica

Come se tutto ciò non bastasse, ci si è messa pure la Prof. di latino del suo vecchio liceo a dargli manforte! Passi, che un prof. di matematica applichi la sua materia a videogiochi didattici da lui stesso realizzati! In fondo, la matematica è strutturale alla programmazione e all'informatica! Ma il latino (lingua tristemente morta e sepolta) … che diavolo c’entra?! C'entra, eccome se c'entra!

Il fatto che una Prof. di latino contamini i videogiochi con la sua materia … beh questo, oltre a seminare scandalo tra i benpensanti, segna una cesura storica tra il vecchio e il nuovo. L’alleanza strategica tra il Prof. di matematica e la Prof. di latino, segna una svolta proficua per il futuro, che è anche un ritorno al passato remoto. Con questi due strateghi del "nuovo", le scienze esatte e quelle umanistiche ritrovano un ambito di coesistenza, un terreno su cui coabitare e interagire, avviando un tentativo di recupero di quell’unicum che una volta si chiamava semplicemente cultura, un luogo in cui tutti i saperi concorrono con pari dignità. 

Si può dire che nei tempi odierni questo è un miracolo? Sì, si può dire. E lo si può dire a maggior ragione quando il miracolo non si limita alle anguste stanze dei dotti, ma esplode con l’entusiasmo dei giovani allievi! Prof. che generano entusiasmo con i test (che una volta chiamavamo compiti in classe) e dai quali si traggono i conseguenti giudizi (che una volta chiamavamo voti)! Non si vedeva tanto entusiasmo dai tempi del “sei politico” degli anni sessanta, con la differenza che quello di allora era un entusiasmo poco nobile, mentre quello di oggi fa ben sperare per il futuro.

Ma l’idea del geniale Montoli diventa qui un pretesto perché le galline osanti deviino come sempre il loro cammino verso altri lidi. Tra scienza, filosofia, e percezione, siamo sempre qui a ragionare su cose vaghe ed astratte, per esempio su cosa si debba (o si possa) intendere per "vero". Ci diranno: «Ma che c’entra il Montoli con i suoi videogiochi?». C'entra, eccome se c'entra!

Veniamo al dunque.

Chiunque dedichi parte del proprio tempo impegnandosi nei videogiochi, o abbia dei figli che lo fanno, sa bene quanto sia richiesta la perfezione formale della grafica, quanto essa debba dare l’illusione della realtà, quante e quali esigenze i videogiocatori riservino alle performance della scheda grafica del proprio computer. Bene. Il motore di sviluppo per i videogiochi utilizzato dal Prof. Montoli realizza immagini bidimensionali molto chiare ma, in quanto a realismo grafico, non troppo lontane da quelle in auge negli anni 80-90. Ricordate Super Mario?

La scelta di uno sviluppo in 2D da parte del Prof. di matematica ha a che vedere con la accessibilità e la fruibilità del mezzo da parte degli utenti. Scelta democratica perchè, in parole povere, non è necessario possedere uno smartphone potente per svolgere le funzioni richieste allo studente-giocatore. 

Un frame dai videogiochi didattici di Enea Montoli

L’illusione della realtà prodotta da questo motore di sviluppo è piuttosto lontana da quella realizzabile con i più sofisticati motori di sviluppo 3D. Ma questo è davvero così importante?

Un frame da un videogioco dalla grafica evoluta

Chi, negli anni '90, si immergeva in quei videogiochi in 2D poteva giurare sull’efficacia del loro realismo grafico. Quegli ambienti e quei personaggi “sembravano veri”. A questo proposito, l’illusione della realtà fornita dai videogiochi (quelli di oggi e quelli di allora), è spiegata con grande efficacia da Roberto Mercadini (attore e scrittore) in un suo video intitolato Giotto spiegato coi videogames [LINK], dove i videogiochi sono didatticamente presi come modello per confrontare l’estetica e il realismo delle opere pittoriche di Giotto e contemporanei, e per discutere delle pertinenti dinamiche percettive e interpretative. Perché in fondo è proprio questo di cui si tratta: percezione e interpretazione di rappresentazioni della realtà.

La percezione (il complesso di sensi attraverso i quali il mondo ci si rivela) non è solo un fenomeno passivo durante il quale il cervello registra le informazioni in ingresso e le veicola pari pari alla coscienza. È anche un processo costruttivo. Il mondo delle percezioni e tutto ciò che ci circonda (come è fatto e come si comporta) forma, assieme alle nostre precedenti esperienze, un insieme di precondizioni e di vincoli (fisiologici e culturali) che indirizzano la ricostruzione attiva dell’esperienza immediata che il cervello opera. Non vediamo esattamente ciò che gli occhi ci inviano, ma una sua ricostruzione. Questa non è per nulla indifferente ai bias (condizionamenti) cui le opreazioni che il cervello esegue sono in parte subordinate.

Stimolo, condizionamento, interpretazione

Orbene, quando ci si immerge in un ambiente particolare (sia questo un videogioco, una sala cinematografica dove si proietta un film in bianco e nero o un film di fantascienza, o un qualsiasi altro ambiente che veicola stimoli percettivi particolari e selettivi), il nostro sistema di lettura e interpretazione ne rimane condizionato. Siamo perfettamente coscienti del fatto che quel mondo è artificiale ed è – con tutti i suoi limiti – solo simbolicamente reale, ma nel momento in cui ci immergiamo profondamente in quell'ambiente particolare e ne accettiamo la cornice simbolica ed espressiva, ciò che accade lì dentro non viene interpretato "come reale" in senso stretto, ma "come se fosse" reale. Pur conservando sempre la piena capacità di distinguere le differenze di “realismo” tra ambienti artificiali diversi, ciò non di meno una vera e propria sensazione di “realtà” ci accompagna durante tutta l’esperienza sensoriale.

Poco importa, quindi, che i videogiochi per i quali il Prof. di matematica è balzato all'onore delle cronache siano meno “realistici” dei videogiochi più sofisticati. Nel momento in cui ci si applica, le avventure e i problemi da risolvere all’interno delle avventure medesime hanno il sapore della realtà. Il “vero” è relativo e sta dentro di noi, non fuori. Non accade questo anche con i romanzi che amiamo di più?









venerdì 18 dicembre 2020

CONOSCERE, CERTO! … Ma cosa, in che modo, e perché?

  

L’uomo senza qualità di Robert Musil è una fonte inesauribile di argomenti su cui soffermarsi a riflettere. Alcune righe qui sotto riproposte mi offrono la possibilità di ragionare sulla conoscenza, tema non così scontato come potrebbe sembrare.

"Se lei vuole considerare quelle esperienze con l’occhio dello scienziato … ricondurrà il mondo a null’altro che a un meccanico giramento di pollici compiuto dalle cosiddette forze della natura!" (Mondadori, 2015. Ebook Kindle, p. 698)

"Proprio questo sentimento mi ha condotto alla scienza, le cui leggi vengono cercate in comune e mai ritenute incrollabili" (p. 1092)

La sua dedizione suprema alla scienza non era mai riuscita a fargli dimenticare che negli uomini la bellezza e la bontà derivano da ciò che essi credono e non da ciò che essi sanno (p. 1005)

L’aver noi fatto della scienza positiva il nostro ideale spirituale significa soltanto mettere la scheda elettorale in mano ai cosiddetti fatti, perché votino al nostro posto. È un’epoca antifilosofica e vile; non ha il coraggio di decidere che cosa ha valore e che cosa non ne ha (p. 1013)

Si erano progressivamente accumulate dichiarazioni nelle quali persone dal mestiere un po’ incerto, come i poeti, i critici, le donne e quegli individui che esercitano la professione di nuova generazione, lamentavano che la scienza pura fosse qualcosa di nefasto, capace di fare a pezzi ogni opera umana elevata, ma non di rimetterla insieme (p. 314)

L'uomo senza qualità (ed. tedesca)

In queste poche righe ho evidenziato una decina di espressioni che indicano alcuni dei punti – talora marginali, talaltra sostanziali – che sono da sempre al centro del dibattito sulla conoscenza: conoscenza delle cause, delle ragioni, dei metodi, delle vie di accesso, dei contenuti e degli attributi esplorabili.

Il dibattito tra scienziati, filosofi, poeti, e tanti altri che professano l’esercizio del pensare non addiverrà mai a risposte definitive sull’argomento, sia perché la parola conoscenza è un termine troppo esteso per essere messo per intero sotto la lente del microscopio, sia perché il termine acquista connotati propri e particolari solo quando si specifica conoscenza “di che cosa”.  

Per quanto attiene ai filosofi, molti di loro – da Platone a Wittgenstein, da Kant a Husserl – si interrogano su che cosa sia la conoscenza. Tuttavia, affannandosi alla ricerca di improbabili soluzioni universali, non addivengono a risposte davvero esaustive. Infatti, il termine che tentano di definire è troppo sfuggente nella sua vaghezza, a meno che non venga inchiodato da un cosa”, da un come e da un a che scopoe da un con quali limiti o con quali estensioni. Già Monimo (filosofo cinico del IV sec. a.C.) ammoniva: Non vi sono certezze”.[1] Lo scetticismo filosofico, d’altra parte, ha sempre sostenuto l’impossibilità di conoscere il vero, ammettendo implicitamente i limiti del conoscere medesimo. Wittgenstein, da par suo, sposta l’attenzione sul ruolo della giustificazione del sapere, consapevole del fatto che i limiti di ciò che giustifica sono contemporaneamente dei limiti per il conoscere.[2] Ma dei filosofi s’è detto a sufficienza. 

Anche molti scienziati, ovviamente, si interrogano sulla questione. Anch’essi, come i filosofi, si sono imbattuti nel problema di poter conoscere il vero e qualche volta si sono anche illusi di averlo fatto. Tuttavia, strada facendo si sono accorti che il progresso delle scienze consiste nel rimpiazzare un vero con un vero ogni volta un po’ più vero, riducendo con ciò lo stato della Conoscenza dal ruolo di assoluto punto di arrivo a quello di mero strumento nelle mani dello studioso. C’è poi un secondo problema per gli scienziati. Applicando ai fenomeni naturali il loro metodo (il cosiddetto metodo scientifico), essi aspirano ad esplorare la realtà dei fatti in maniera oggettiva. Strada facendo, si sono accorti però che i fenomeni sono solo modi attraverso i quali la realtà si palesa e non la Realtà stessa. Con tutto ciò, anche la pretesa oggettività (il cui concetto contiene l’aspirazione a un che di universale) finisce coll’essere ridimensionata a ciò che può essere tranquillamente espresso in termini di ripetibilità e condivisione delle osservazioni. Per tutto ciò che s’è detto, gli scienziati più accorti si astengono dal cercare definizioni universali della Conoscenza e si limitano a mettere in relazione le caratteristiche misurabili dei fenomeni con modelli esplicativi di pratica utilità. Come Socrate, gli scienziati che più sanno, sanno di non sapere (o di non sapere abbastanza). Fa parte dello statuto della scienza sapere che il suo sapere non è mai certo e che ogni sua giustificazione attende di essere rimpiazzata da una migliore: come dice Musil le sue leggi non vanno mai ritenute incrollabili”.

Raffaello: la conoscenza delle cause (Musei Vaticani)

Quanto ai poeti, mi vien da citare giusto Leopardi e Pessoa, le cui trasparenti parole sulla questione non richiedono ulteriori commenti.

"E tanto è miser l’uomo quant’ei si reputa … Così tanto è soddisfatto nell’uomo il desiderio di conoscere dalla credenza di conoscere … che solamente può esser soddisfatto dalle illusioni e dalle false persuasioni di conoscenza" (Giacomo Leopardi, Zibaldone).

"Non subordinarsi a niente, né a un uomo né a un amore né a un’idea; avere quell’indipendenza distante che consiste nel diffidare della verità e, ammesso che esista, dell’utilità della sua conoscenza" (Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine).

Giorgio de Chirico: Enigma di una giornata

Tra i pensatori “non filosofi, non poeti, e nemmeno scienziati”, Edgar Morin è uno di quelli che affronta l’argomento con apprezzabile umiltà e sincerità. Anziché cercare argomenti per definire la conoscenza, egli va alla ricerca delle fonti delle nostre illusioni a proposito della conoscenza del vero e del reale. Ed è anche il più saggio, perché ragionare umilmente sui limiti è la grande forza della conoscenza, non la peggiore delle sue debolezze.[3]

C’è poi tutta quella conoscenza che riguarda il bello, il buono, il giusto, l’utile, il poetico e altre astrattezze. Conoscenze, queste, che forse hanno meno pretese (ma non molte di meno) di avere a che fare col vero. Qui la scienza è davvero marginale e gli scienziati hanno assai poco da dire. Riguardo alle vie non scientifiche per addivenire all'invocata conoscenza del bello, del buono, del giusto e così via, c’è chi invoca un non meglio precisato riconoscimento dell’ordine armonico”, chi invoca l’accesso al mondo delle idee attraverso una fantomatica reminiscenza della Conoscenza in sé (Platone, Menone), chi l’accesso al divino per via intellettuale (Spinoza, Etica) o per via mistica (i grandi mistici della storia). Insomma, c’è da sbizzarrirsi. Per fortuna Musil corre in nostro soccorso affermando chenegli uomini la bellezza e la bontà derivano da ciò che essi credono e non da ciò che essi sanno”. Meno male che Musil c’è.

Mai che nessuno faccia cenno alla cultura, all’esperienza, all’aver visto, all’aver studiato, all’essersi applicati (oppure nel non aver fatto nulla di tutto ciò). È in quegli atti che si forgiano alcune conoscenze e, con queste, le predilezioni, i gusti, e i valori che attribuiamo alle cose e alle idee. Uno dei pochi a far cenno a ciò è ancora il nostro buon Leopardi: "Il desiderio di conoscere non è per massima parte se non l’effetto della conoscenza" (Zibaldone). Ed ecco che ancora Musil ci sostiene, ricordandoci che gli uomini devono avere il coraggio di decidere che cosa ha valore e che cosa non ne ha”. Meno male che Musil c’è.

Caspar David Friedrich: Il viandante sul mare di nebbia (1818)

Dopo tutto questo ragionare vado a vedere che cosa afferma Wikipedia.it a proposito della conoscenza. Apro la pagina e leggo:

La conoscenza è la consapevolezza e la comprensione di fatti, verità o informazioni ottenute attraverso l'esperienza o l'apprendimento (a posteriori), ovvero tramite l'introspezione (a priori). La conoscenza è l'autocoscienza del possesso di informazioni connesse tra di loro, le quali, prese singolarmente, hanno un valore e un'utilità inferiori”.

Preferisco Musil. Incomparabilmente più fascinoso.

 

 

 



[1] Marco Aurelio. Pensieri - L'arte di conoscere se stessi (Libro II: 15).

[2] Ludwig Wittgenstein. Della certezza.

[3] Edgar Morin. Metodo. Vol. 3. La conoscenza della conoscenza. Raffaello Cortina Editore, 2007

venerdì 20 novembre 2020

C’É VERO E VERO, VERITÁ E VERITÁ


Uno dei più antichi documenti a proposito del “sapere” e del “vero” risale alla polemica a distanza tra il filosofo Eraclito (VI° secolo a. C.) e il poeta Esiodo, che era vissuto un secolo prima. In uno dei frammenti della sua opera giunti fino a noi Eraclito afferma:

Maestro della massa degli uomini è Esiodo: pensano che egli sia sapiente più di qualsiasi altro, lui che non conosceva nemmeno il giorno e la notte; sono in realtà una sola e stessa cosa (frammento 57).

Da allora in poi, il dibattito su chi sia l’autentico depositario del vero – il mito, la filosofia, la religione, l’arte, la poesia, la letteratura, la magia, la scienza, l’estasi, ecc. – ha riempito milioni di volumi, senza che ciò abbia portato ovviamente a nessuna conclusione, anche perché - in fondo - che cosa sia il vero nessuno lo sa.

La letteratura, quella cosa da cui molti di noi si lasciano ispirare quando fuori piove e non hanno niente di meglio da fare, è ricca di richiami sul tema del vero e sulla capacità della scienza di accedervi. Qui di seguito, alcuni passi in cui sono incappato recentemente:

E che cosa è la nostra pretensione di conoscere il vero? Gli antichi s’immaginavano di conoscerlo al par di noi. Che cosa è lo stesso vero? Quali sono le verità assolute quando non siamo punto sicuri che il venturo secolo non dubiti di ciò che noi teniamo per certo? (Giacomo Leopardi, Zibaldone)

 

La scienza non è che una conoscenza immaginaria della verità assoluta (Lev Tolstoj)

 

La scienza è l'asintoto della verità, si avvicina incessantemente senza mai toccarla (Victor Hugo)

 

Che cos’è la Verità? In materia di religione, è semplicemente l’opinione che è sopravvissuta. In materia di scienza, è l’ultima sensazione. In materia d’arte è l’ultimo umore di un singolo (Oscar Wilde)

“Che cosa è lo stesso vero?”, si chiede dunque Leopardi. Per affrontare il tema, mi rivolgo fiducioso alla geometria e mi pongo una domanda facile facile, sperando di arrivare presto a una soluzione.

Mi chiedo: che cosa c’è di vero in un triangolo?

Questa domanda ne presuppone un’altra ancora più facile: che cos’è un triangolo?

Nei manuali di geometria il triangolo è definito come “un poligono che ha tre lati e tre angoli”.

Ma, mi chiedo, il triangolo esiste in natura o è un concetto geometrico creato dell’intelletto? Guardandomi intorno, osservo che in natura esistono triangoli di ogni specie.

Esistono rocce triangolari. 

Vulcani triangolari. 

Fiori triangolari.

E perfino animali con forme triangolari.

Ma in tutti questi casi è la nostra mente a definirli tali e lo fa attraverso operazioni di confronto e di associazione tra le forme naturali e quella del nostro triangolo concettuale. Ma in natura, di fatto, veri triangoli non esistono.

Tra i manufatti, anche la nostra perfettissima squadra da disegno è un’approssimazione (ottima peraltro) del nostro triangolo concettuale.

Dunque, quando diciamo “triangolo” a quale verità ci riferiamo? Ci riferiamo agli oggetti che hanno quella particolare forma o piuttosto alla forma ideale elaborata dal nostro intelletto?

Il Demonio, si dice, è nei dettagli. E la verità, aggiungo, è una cipolla a più strati.

Cerco di spiegarmi meglio. Pensiamo, per esempio, alla sedia sulla quale siamo seduti. La vediamo, la tocchiamo. Sembra vera. È lì da anni, è fatta di un buon legno robusto, sostiene magnificamente il nostro peso.

Ma se sfogliassimo la cipolla, vale a dire se strato dopo strato scendessimo ai livelli costitutivi della materia di cui la sedia è fatta e arrivassimo fino al livello atomico, forse allora la nostra sedia ci apparirebbe così.

E se sfogliassimo ancora la cipolla fino al livello delle forze elementari e dei rispettivi campi energetici fluttuanti forse la nostra sedia ci apparirebbe in un altro modo ancora.

Quale sedia, dunque, è quella vera? "Tutte!", avrebbe esclamato Eraclito, ma ognuna è “vera” al suo particolare livello, tenendo inoltre conto che ciascuna di quelle sedie è una nostra rappresentazione concettuale costruita sulla base di ciò che ci rimandano i nostri strumenti di osservazione (gli occhi, il microscopio, gli strumenti di analisi della materia, i modelli della fisica teorica). Per dire a quale verità o a quale “vero” ci si riferisce, bisognerebbe prima specificare a quale strato della cipolla (in questo caso a quale livello di organizzazione della materia) si fa riferimento.

Certo è che un vero che si muove liberamente e contemporaneamente su diversi livelli è un vero che si fa sfuggente e sdrucciolevole, senza dimenticare che il “vero” di un oggetto o di un di un concetto non è una sua proprietà intrinseca, bensì una qualità arbitrariamente assegnatagli dal nostro intelletto attraverso sue proprie operazioni mentali. L’oggettività di giudizio sul vero – vale a dire la condivisione del giudizio da parte di più menti – non rende il vero più vero.   

Ma torniamo ai nostri triangoli e affrontiamo un secondo problema. Per farlo, applichiamo al nostro triangolo – un triangolo rettangolo in questo caso – il ben noto teorema di Pitagora il quale afferma che 

in ogni triangolo rettangolo l'area del quadrato costruito sull'ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti.

C2 = B2 + A2  

Già alle scuole medie il teorema di Pitagora ci veniva dato per “vero”. E in effetti ci sono diversi modi geometrici (oltre a quelli empirici) per dimostrare la verità del suo enunciato.


Osservando la figura qui sopra, si vede che l’area del quadrato il cui lato corrisponde a lato lungo (ipotenusa) del triangolo giallo equivale alla somma delle aree dei quadrati il cui lato corrisponde ai lati corti (cateti) triangolo giallo medesimo.

Il teorema di Pitagora, dunque, è “vero”.

Ed ora, dopo tutto ciò, la questione conclusiva.

Mettiamola in questi termini. Se il teorema di Pitagora è “vero”, vuol dire che il suo enunciato descrive una “legge di natura” inerente al triangolo stesso. Ma come fa una legge di natura ad essere parte costitutiva di un oggetto che in natura non esiste? E come ha fatto l’intelletto umano a concepire un oggetto ideale che contiene una legge costitutiva interna che lo stesso intelletto ha scoperto solo molto tempo dopo aver ideato l’oggetto medesimo? E non ditemi che è la stessa storia dell’uovo e della gallina.

Bene, con questa domanda insoluta in mente non so se questa sera riuscirò a prendere sonno come vorrei.



 






venerdì 6 novembre 2020

L'INGIUSTIZIA FRA LE PIEGHE DELLA SCIENZA - LA VICENDA DI MARIE THARP, LA DONNA CHE RESE VISIBILE LA DERIVA DEI CONTINENTI


Poco più che ventenne abbracciai le scienze nella ferma convinzione che il suo particolare metodo garantisse una conoscenza quanto più possibile oggettiva e predisponesse al tempo stesso  alla equità e alla neutralità di giudizio


Beate illusioni di gioventù. 


Quello che segue - tratto da un recente saggio divulgativo - è uno dei tanti aneddoti che si incontrano nella storia della scienza e che illustra quanto sia illusorio, a volte, accostare l'idea della giustizia a quella della scienza. 

Un giorno del 1926 una bambina americana di 6 anni, Marie Tharp, vede l’oceano per la prima volta. Si trova a Pascagoula (Mississippi), in una regione pianeggiante a un’altitudine di pochi centimetri sul livello del mare. Qui, il suolo digrada così lentamente nel mare che è quasi impossibile determinare il punto in cui scende sotto la superficie dell’acqua […] Di fronte a questa superficie apparentemente vuota, cosa va a pensare una bambina di 6 anni? Che la terra continui anche sotto la superficie dell’acqua? Che più oltre si corrughi in montagne e vallate subacquee?

In quello stesso preciso momento, dotata di un sonar inventato solo quattro anni prima (1922), la nave tedesca Meteor sta compiendo i primi ecoscandagli del fondale dell’oceano atlantico, scoprendo che la Dorsale Medioatlantica non è pianeggiante come si credeva, ma è solcata da un'alta catena montuosa. Ventisei anni dopo, quella bambina che abbiamo appena visto sulla spiaggia, scoprirà che questa catena di monti si è formata perché i continenti sono in movimento.

[Thomas Reinertsen Berg. Mappe. Il teatro del mondo (Vallardi, 2018)].

Sulle prime nessuno volle crederle. Ma ancor prima, nessuno aveva voluto credere neppure ad Alfred Wegener che, nel 1915, in un saggio intitolato L’Origine dei Continenti e degli Oceani, aveva sostenuto la teoria che i continenti fossero formati da placche in movimento, galleggianti su un mare di magma fluido. D’altronde, Wegener era un geologo tedesco e, nel pieno della Grande Guerra, lo sciovinismo dominante faceva sì che si diffidasse di tutto ciò che era tedesco, scienza compresa. I geologi sbeffeggiavano all'unisono la teoria della Deriva dei Continenti, sostenendo che l’ipotesi era semplicemente impossibile, contrastando con la più evidente delle esperienze umane: i piedi poggiano su una terra ben ferma e stabile. Terminata la guerra, la considerazione dei geologi nei confronti di Wegener era rimasta tal quale, tanto che in vita egli non ebbe il piacere di vedere accettata la sua teoria che oggi è invece considerata un tratto fondante e un paradigma delle scienze geologiche.  

Alfred Wegener

Ma torniamo alla nostra bambina di 6 anni.

Nata nel 1920, figlia di un agrimensore-cartografo e di una insegnante, si era dedicata alla letteratura e alle lingue ma, cambiata improvvisamente strada, si era successivamente laureata in geologia, specializzandosi in geologia petrolifera, branca in quegli anni ben poco frequentata dalle donne. Non ammessa – in quanto donna – alla ricerca sul campo, aveva dovuto adattarsi a un lavoro d’ufficio, con mansioni cartografiche. Insoddisfatta della posizione, aveva studiato matematica laureandosi anche in questa disciplina. 

In quegli anni aveva conosciuto un geologo, Bruce Heezen, allora impegnato nell’ecoscandaglio del fondo oceanico, un'attività del tutto nuova negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Il loro fu un incontro sentimentale tonificato da un ambizioso progetto scientifico: cartografare l'intera superficie dei fondali oceanici. Per anni, dal 1948 al 1956, Marie tradusse in immagini i tracciati degli ecoscandagli che Bruce le procurava mese dopo mese. A poco a poco, dalla sua penna emergeva l’immagine di un piatto fondale oceanico nel mezzo del quale si stagliava una lunga catena di monti solcata da una profonda gola larga una trentina di chilometri. Bruce non crede ai propri occhi quando realizza il significato di quella mappa: «Non può essere!», afferma, «sembra …» e Marie, entusiasta, completa la frase,«...la Deriva dei Continenti», portando così la prima lampante conferma alla teoria proposta quarant’anni prima da Alfred Wegener. 

La bomba mediatica e scientifica era scoppiata. L’idea di una terra solida e ben ferma sotto i nostri piedi crollava sotto l’evidenza dei disegni di Marie che aveva tradotto in immagini gli oggettivi e incontrovertibili tracciati sonar.  

La dorsale atlantica con la catena montuosa solcata nel mezzo da un profondo solco

Ma Marie è una donna e, per sua ulteriore disgrazia in quel mondo appena appena maschilista, il suo look non corrisponde esattamente ai canoni estetici imposti dal genere maschile e la cui icona corrispondeva in quegli anni più alle fattezze di Marilyn Monroe o di Brigitte Bardot che non al suo fisico migherlino.

Marie Tharp

In quanto donna non era stata ammessa alle ricerche sul campo ed era stata relegata “in ufficio”, cosa non particolarmente allettante per un geologo. Ora, per lo stesso motivo, viene praticamente esclusa dalla luce dei riflettori che illustrano l'importante scoperta al grande pubblico. Il National Geographic Magazine pubblica la sua mappa ma il New York Times invia reporter che intervistano solo i suoi colleghi maschi, disinteressandosi completamente del suo essenziale contributo a una scoperta che ha sconvolto  la geologia dalle fondamenta, costringendo questa scienza a riscrivere totalmente i propri paradigmi. La palese ingustizia del trattamento che in questa occasione le fu riservato dai media e dai colleghi scienziati non le impedì per fortuna di proseguire in una lunga e brillante carriera. 

Questo genere di ingiustizia è una storia già vista e la lista delle brillanti scienziate cui è stata riservata analoga sorte è lunga. Non c'è bisogno di invocare una particolare malizia da parte degli scienziati maschi e dei mezzi di comunicazione nel costringere le scienziate in posizione defilata rispetto alle posizioni di maggior prestigio. Quel che è particolarmente grave è che la prassi di tenere le scienziate in una considerazione non troppo diversa da quella riservata all'arredamento del laboratorio, nasceva da una mentalità condivisa dall'intero genere maschile cui anche molte donne incredibilmente si adeguavano, quasi credessero davvero che quello fosse il loro ruolo naturale.   

É una storia già vista e che, ogni volta che si ripete, provoca in me un serio disagio. Quel giovane illuso che ero si immaginavia che la scienza fosse un terreno giusto e neutrale dove anche i meriti vengono misurati con lo stesso metro "neutrale e oggettivo" usato per l'analisi dei "fatti". Era questa la giustizia che mi attendevo dalla scienza. Evidentemente sbagliavo. 

C’è da sperare che in futuro le cose vadano diversamente.






venerdì 23 ottobre 2020

IL VERO E IL BELLO - Cronaca di una scoperta


In questo post racconto come il vero e il bello mi si siano manifestati congiuntamente in modo del tutto inatteso durante i miei primi armeggiamenti in un laboratorio di immunochimica.[1] Frutto tardivo di quelle antiche emozioni, la conversazione che segue trae nutrimento da pensieri ed esperienze altrui e di ben altro valore.  

Quado ero un giovane studente ero certo che la scienza fosse l’unico strumento per accedere al reale e per conoscere il vero. Non ero conscio che avrei potuto limitarmi a considerarla un metodo efficace per rappresentare, interpretare e predire fenomeni. Né potevo immaginare, privo d'esperienza com'ero, che oltre alle categorie del reale e del vero, attraverso la scienza fosse possibile accedere alla categoria del bello. A quel tempo mi veniva naturale prendere per buona la massima «Nell’arte il bello, nella scienza il vero» con la quale Paolo Mantegazza (Igiene dell’amore, 1877) lasciava in eredità al Novecento l'assoluta separatezza delle le due categorie. 

Poi, finalmente, dalla piccola scienza che usciva dalle mie mani sbocciò improvviso il bello. Fu un’esperienza intensa e sorprendente.

Parte del lavoro riguardante la mia tesi di laurea consisteva nell'estrarre dal sangue purificandole al più elevato grado possibile alcune particolari proteine. L’armamentario di cui disponevo era vario, complicato e tecnologicamente avanzato: soluzioni acide, soluzioni alcaline, centrifughe, strumenti cromatografici, spettrofotometri e via dicendo. Alla fine del lavoro di estrazione (attività che richiedeva diversi giorni per essere ultimata), le soluzioni proteiche che avevo ottenuto passavano attraverso strumenti che ne misuravano la quantità e la purezza. Nel mentre, dei pennini riproducevano su carta ciò che stava avvenendo letteralmente sotto i miei occhi, occhi che però, senza l'ausilio degli strumenti, sarebbero rimasti totamente ciechi alla qualità dei risultati ottenuti. Le proteine purificate si distribuivano in picchi ben distinti. Qui di seguito due grafici rappresentativi di quelle esperienze.  


Due esempi di purificazione cromatorafica di proteine

Quelle curve disegnate su carta erano copia e rappresentazione di una realtà vera altrimenti invisibile (le proteine purificate). In quei grafici i miei occhi vedevano il vero. Un "vero" che, contemporaneamente, era anche estremamente bello. Resta da capire se quel “bello” era tale in sé o perché rappresentava un esperimento perfettamente riuscito. In tal caso, in quella curva oltre al bello prendeva corpo un'altra categoria, quella del buono, nel senso del "ben fatto". 

Ero estasiato da quella esperienza estetica. Era un'emozione inattesa che travalicava l'ambito della ragione sommuovendo livelli ancestrali del sentire. 

La categoria del bello era penetrata in me attraverso un canale inaspettato (a voler dar retta a Mantegazza), quello della scienza, che ai miei occhi continuava a rappresentare il vero.   

Ma il bello nella scienza sembra apparire ovunque. 

Che dire dei frattali che rappresentano, attraverso la matematica, la ricorsività di avvenimenti naturali solo apparentemente casuali?

Frattale

Che dire delle tracce lasciate da particelle subatomiche durante la loro effimera vita di pochi milionesimi di secondo?

Particelle subatomiche effimere rivelate nella "camera a nebbia"

La stretta connessione tra vero e bello rivela un che di entusiasmante che ti sprona a cercarlo ovunque, anche se - oggi me ne rendo conto - la categoria del vero è piuttosto sdrucciolevole. 

Oggi, sulla perfetta corrispondenza tra scienza e vero ho qualche riserva che da giovane non avevo, ma quanto alla percezione del bello nella scienza questa è rimasta immutata e non mi è difficile comprendere l’ottocentesco entusiasmo di Carlo Cattaneo quando affermava: «le bellezze del vero scientifico sono inesauste; la loro varietà vince l’immaginazione» (Il Politecnico, vol. 5, 1842).

Vi sono sorprendenti corrispondenze tra le forme generate da certe espressioni matematiche e alcune forme assai diffuse in natura. Tra le più belle, quelle generate dalle formule di Fibonacci che trovano corrispondenze quasi perfette con forme naturali estremamente comuni.

Strutture naturali conformi all’equazione della spirale mirabile  sviluppata 
da Leonardo Pisano detto il Fibonacci (1170-1242)

Per molti matematici certe equazioni risultano belle di per sé e “suonano” come magnifiche melodie. Ciò avviene quando dette equazioni rappresentano una soluzione elegante a un determinato problema o portano a risultati inaspettati e innovativi. 

In questa faccenda del senso estetico legato alla scienza sembra di intravedere un che di universale, vale a dire una sorta di risonanza tra le forme che la scienza genera e quelle di cui l’intelletto gode. Giovanni Sebastiani (matematico del Cnr) afferma: «Credo che la matematica sia stata inventata per rispondere alle esigenze dell’uomo, sia per ciò che ha a che fare col mondo materiale e per ciò che ha a che fare con l’astratto, come la bellezza e come i concetti di carattere universale».

Da par suo, Robert Musil, romanziere eccelso e per nulla a digiuno di scienze, fa dire a un suo personaggio: «Nella scienza tutto è forte, audace e splendido come nelle favole» (L’uomo senza qualità, 1933).

Il rapporto tra scienza e senso del bello è così forte che, per esempio, Roger Penrose (premio Nobel 2020 per la Fisica) può oggi affermare che «I successi di Dirac, Schrödinger, Einstein, Feynman e molti altri sono dovuti al fatto di essere stati guidati, in misura abbastanza ampia, dall’attrazione estetica delle particolari idee teoriche da loro proposte.» (La strada che porta alla realtà, Bur Rizzoli 2011).

Un altro premio Nobel, Subrahmanyan Chandrasekhar (Nobel per la fisica nel 1983), rilancia l'idea che «il valore estetico di una teoria scientifica risieda nella sua capacità di introdurre armonia ove in precedenza regnava il caos» (Le ragioni dell'estetica nella scienza, 1987)

La relazione tra scienza (modalità per descrivere la realtà) e senso estetico (modalità per entrare in rapporto con la realtà medesima) viene infine ben rappresentata dall'espressione danza cosmica”. Ne parla estesamente Fritjof Capra quando, facendo riferimento alla descrizione della materia da parte della fisica del ventesimo secolo, afferma: «L’intero universo è impegnato … in una incessante danza cosmica di energia» e quando, citando le parole di un Lama tibetano riportate da Alexandra  David-Nell, trascrive: «Tutte le cose sono aggregati di atomi che danzano e con i movimenti producono suoni … Ciascun atomo canta perennemente la sua canzone e il suono, in ogni istante, crea forme dense e tenui» (Il Tao della fisica, Adelphi 1982 p. 259 e 279). 

Il danzatore cosmico Shiva-Nataraja

In questa visione taoista della materia e dell'universo che fu cara a molti fisici del Novecento risuonano le antiche armonie astronomico-numeriche che dall’antica filosofia greca (da Pitagora a Platone, ) corrono giù giù lungo il medioevo fino al rinascimento quando, per esempio, Keplero inglobava geometria, musica e cosmologia nella cosiddetta musica delle sfere (Harmonices Mundi, 1619) o quando Goethe, nel Faust, fa dire all’arcangelo Gabriele:  «Intonando l'antica melodia, a gara con gli astri fratelli, percorre il corso prescritto il Sole con passo di tuono».

Con tutto ciò si rende evidente che l’estasi da cui fui improvvisamente sopraffatto negli anni verdi della gioventù ha una storia lunga e universale di cui allora nulla sospettavo ma sulla cui intima natura ancora mi interrogo. L’interrogativo più immediato riguarda l’origine di quel senso del bello che alcune forme generate dalla scienza evocano nella mente di chi le osserva. Il fatto che tali forme possano rendere visibile l’invisibile può generare sorpresa ma da solo non è sufficiente a generare il senso del bello. C’è qualcosa di più. Può essere che tali forme rappresentino uno spiraglio attraverso il quale il lato razionale di chi osserva percepisce la plausibilità della rappresentazione del vero che gli viene offerta. Ma anche questo forse non è abbastanza. Può essere che quelle forme inducano una sorta di risonanza o consonanza mentale tra quelle rappresentazioni del “vero” e le aspettative dell’intelletto di poter accedere a quel medesimo vero.  Nella mente dell'uomo esiste una vera e propria fame di vero e quelle forme possono apparire come una consolatoria rappresentazione di quel vero che, prima che la scienza la mettesse a disposizione, era accessibile solo attraverso la mediazione religiosa. É forse su questo ancestrale sfondo spirituale che, indossando gli abiti forniti dalla scienza, il vero giunge all'intelletto approdando infine alle categorie mentali del giusto e del bello.



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 L'immunochimica è una disciplina immunologica che si prefigge di studiare gli antigeni, gli anticorpi e l'interazione antigene-anticorpo utilizzando i concetti ed i metodi che appartengono alla chimica (definizione da Wikipedia).