domenica 25 giugno 2017

UOMINI E TOPI

Da La Lettura (n° 291 del 25 giugno, pag. 2), trascrivo integralmente una breve nota di Giuseppe Remuzzi, intitolata Topi alcolici:

"Per adesso è una faccenda di topi ma non c'è ragione di pensare che non si applichi all'uomo. Topi che nell'adolescenza respiravano vapori di alcol hanno poi danni neurologici in tre regioni precise del cervello tra cui l'amigdala, la sede delle emozioni. Ma se si ripete lo stesso esperimento nei topi adulti quei danni non si vedono. È perché, nelle fasi dello sviluppo, il cervello è particolarmente vulnerabile ai danni delle sostanze tossiche (e succede anche con altre droghe)".




Uomini e topi è il titolo di un famoso romanzo di John SteinbeckDetto titolo è tratto da una composizione di un poeta scozzese del settecento: Robert Burns. Lo scrittore e traduttore Claudio Gorlier (scomparso il 4 gennaio di quest'anno) spiega che «I versi di Burns da cui il titolo è ricavato accennano ai piani architettati da uomini e da topi che spesso sortiscono cattivo esito, e invece della gioia promessa recano null'altro che dolore e sofferenza» (da Wikipedia).

Utilizzando il titolo del romanzo di Steinbeck, sembra proprio che il Prof. Remuzzi voglia sottindendere che certi comportamenti, per esempio quello di assumere sostanze a puro scopo ricreativo, possano sortire danni importanti, non preventivati, indesiderati, sottovalutati e forse anche del tutto ignorati. Che il vino non facesse troppo bene ai bambini lo sapevano anche i nostri vecchi i quali, nelle feste comandate o nelle grandi occasioni ci facevano bere un goccetto mescolato con l'acqua e ci consentivano l'accesso alla gustosa bevanda solo verso la maggiore età. I nostri vecchi, di topi alcolizzati non ne sapevano nulla ma, tant'è, una qualche idea ce l'avevano sul fatto che le sostanze inebrianti potessero far male ai bambini (un po' meno ai grandi, se non si eccede). Oltre alla opportuna scelta del titolo, il breve tweet del Prof. Remuzzi è utile sia per il messaggio che lancia, sia per il fatto di segnalare che la scienza - con le sue tecniche, con i suoi metodi, con i suoi tempi - si dà da fare per dimostrare, con l'evidenza dei fatti, come, dove e perché si originano certi danni e quanto permanenti essi possano essere. Negli anni novanta fu un fiorire di articoli scientifici sui danni della nicotina, dell'alcol e dei cannabinoidi sul cervello dei topi. Questi esperimenti non sortirono un grande effetto sulle abitudini degli adulti e nemmeno degli adolescenti. Ora che gli esperimenti prendono in considerazione i danni della somministrazione precoce vedremo se ne sortiranno effetti migliori o più incisive campagne di sensibilizzazione. Siamo ansiosi di poter condividere gli aggiornamenti su questi nuovi esperimenti.     



mercoledì 21 giugno 2017

MA LA SCIENZA, CHE COS’È? – DEFINIZIONI (parte 4 di 5)

La terza delle quattro definizioni che ho pescato dalla rete proviene da un simpatico Blog famigliare il cui scopo è fornire a studenti della scuola primaria e secondaria alcune indicazioni, semplici e chiare, per affrontare le materie che costituiscono il loro corso di studi. Gli intenti del blog sono lodevoli ed avendo esplorato il blog in alcune sue parti devo concludere che i risultati sono lodevoli non meno degli intenti.


SkuolaBlog


Una domanda, però, sorge spontanea. Come mai c’è bisogno di un blog per spiegare ai ragazzi le cose in modo chiaro, semplice ed efficace? Non dovrebbe, questo, essere il compito che normalmente svolge quell’istituzione molto costosa per le tasche degli italiani e che si chiama scuola? Questa domanda rimane senza risposta e si spegne piano piano sulle mie labbra. Transeat. 

Il blog è organizzato secondo le materie istituzionali: italiano, storia, matematica, scienze, ecc. Avrei preferito una logica un po’ più olistica, una logica che, fin dalla più tenera età, mostrasse al bambino che la cultura è un tutto e che più le informazioni si mescolano tra loro, più la cultura riesce a nutrirsi delle necessarie interconnessioni di tutto con tutto. Mi rendo tuttavia conto che sarebbe chiedere troppo, soprattutto ai fruitori i quali, fin dalla più tenera età, sono abituati a ricevere dalla scuola informazioni parcellizzate e catalogate per materia, come se stessero acquistando la cultura su un catalogo online. 
Detto ciò per puro passatempo, passiamo alla definizione di scienza proposta da questo blog: La scienza è uno strumento per esplorare la realtà che ci circonda in modo profondo e accurato; descrive come è fatto il nostro mondo e come funziona  (vedi al LINK). 
In considerazione della platea cui è diretta la definizione, bisogna ammettere che essa è semplice, chiara e leggera. Questo è già un primo pregio. Il secondo pregio è quello di classificare fin da subito la scienza come uno “strumento”. Siamo dunque nel territorio giusto. È importante far capire ai ragazzi che la scienza non è una religione; non è un credo; non è una via razionale per approdare alla verità; non è una autorità da cui discende una indiscutibile verità rivelata. La scienza va collocata nel territorio della prammatica: è uno strumento che gli uomini si sono inventati (e ci hanno impiegato molti millenni per farlo) per ottenere qualcosa di utile nella vita di tutti i giorni, vale a dire mettere un certo ordine (un ordine utilitaristico) nei fenomeni del mondo, trarre predizioni utili, intervenire efficacemente sull’apparente caos del mondo, organizzando e manipolando detto mondo in modo da trarne diffusi vantaggi e benefici. 
Tra questi c’è anche quello di costruire modelli e rappresentazioni del mondo che, pur non essendo necessariamente veritieri, sono essi stessi strumenti utili a intervenire in modo utilitaristico sul mondo. Comunque la si pensi su questo tema, ai ragazzi che stanno iniziando a formarsi delle categorie mentali su ciò che viene loro insegnato, in una logica di educazione allo spirito critico credo sia giusto insistere sul fatto che la scienza – benché sotto sotto ambisca alla “verità” e alla descrizione “vera” della “realtà” che ci circonda (oddio, quante virgolette!) – difficilmente sarà in grado di realizzare tale traguardo e dovrà accontentarsi si essere uno strumento pragmatico di previsione, chiamando “conoscenza” tale capacità di previsione.
La definizione data da SkuolaBlog afferma che la scienza è uno strumento peresplorare la realtà che ci circonda”. Corre l’obbligo, qui, discutere separatamente le parole “esplorare” e “realtà”. Nella definizione di Yahoo Answers s’era discusso della parola ricerca”. Qui c’è la parola esplorare che è parente alla lontana della parola “ricerca” ma che, secondo me, coglie molto più nel segno e nel significato profondo dell’agire scientifico.


La parola esplorare dà immediatamente l’idea di non accontentarsi dell’apparenza del fenomeno; di non rimanere alla superficie delle cose. Fa capire che, per capire meglio le cose e per poterle poi prevedere con una certa affidabilità, è necessario grattare la superficie dell’apparenza: grattare, andare oltre la superficie, trovare relazioni sotterranee che a prima vista sfuggono. Non accontentarsi dell’ovvio e del visibile. Analizzare il terreno sconosciuto, toccarlo, saggiarlo; esplorare i dintorni, gli annessi e i connessi. Scomporre – se il caso – problemi complessi in problemi più semplici, ma non accontentarsi, poi, di tale orizzonte riduzionista, ma “esplorare” la rete di relazioni da cui emerge la complessità, entità d’ordine superiore alla somma delle parti che la compongono. In un’altra sezione del medesimo blog, a proposito del metodo che usa la scienza si parla di indagare”, in un senso molto affine a esplorare”: osservare, studiare attentamente un fenomeno per capire come e perché si verifica(vedi al LINK).
Non accontentarsi, dunque, di “scorrere” sulla superficie: in latino, “plorare” rappresenta lo scorrere dell’acqua o delle lacrime. La particella “ex” potrebbe voler dire “allontanarsi dalla condizione dello scorrere in superficie”, quindi, ex-plorare più in profondità. Mi piace pensare che questo sia il significato profondo della parola esplorare ma su questa etimologia non vi è unanime consenso. Per chiudere questa prima riflessione, la parola esplorare usata da SkuolabBlog mi piace moltissimo, molto più della parola ricerca. Inoltre, la parola “esplorare” veicola in modo naturale l’innata e inestinguibile curiosità di sapere che funge da primum movens per coloro che decidono, facendone anche un mestiere, di esplorare il mondo nelle sue varie componenti.
Esplorare cosa, dunque? La realtà. La parolarealtà”, da sola, potrebbe occupare milioni di gigabyte di discussione. Qualcosa s'è già detto in precedenza e qualche altra cosa la aggiungiamo qui. 


Da sempre i filosofi si affannano per definire la realtà. Senza andare troppo nel complesso si può dire, semplificando, che i filosofi contrappongono due punti di vista all'apparenza inconciliabili: il primo è: l’ordine del mondo genera l’ordine della mente che lo pensa”. L'altro, antitetico, è: l’ordine della mente che pensa il mondo, genera il mondo”. Quando i filosofi contrappongono due opposti punti di vista, finiscono col radicalizzare le posizioni. Alla fine, o sei realista o sei idealista: tertium non datur. Lasciando perdere le discussioni radicali dei filosofi dobbiamo però capire di che realtà stiamo parlando. Questa non può essere definita a priori come fanno i filosofi ma, credo, in maniera relativa, vale a dire in relazione alla scala, all'ordine di grandezza della realtà che osserviamo e agli strumenti e alle finalità con cui osserviamo quella stessa realtà. Parliamo quindi, innanzitutto, di almeno due principali scale di grandezza: l'infinitamente piccolo del "microcosmo" (ove le forze sono esplorabili solo con sofisticatissimi strumenti), e il relativamente grande del "macrocosmo" (che va dalla scala umana a quella planetaria e oltre). Quello che sorprende è che, in apparenza, a livello di microcosmo la materia è assoggettata a certe leggi fisiche mentre a livello di macrocosmo la materia sembra essere assoggettata a leggi fisiche ben diverse. Com’è che a livello di scala “umana” le leggi della fisica sono deterministiche mentre a livello di microcosmo quantico le leggi non sono deterministiche come sulla scala umana? E com’è che su scala universale, questo dannato universo sembra comportarsi in un modo difforme tanto dalle leggi deterministiche che da quelle probabilistiche dalla scala più bassa? Se la realtà è una, perché queste diverse modalità di comportamento? Secondo alcuni, il fatto è che noi, non avendo accesso diretto alla realtà in sé (ricordiamo l’onnipresente Kant), esploriamo i fenomeni attorno a noi con gli strumenti (e con le relazioni mentali) che ci sono propri. Questi strumenti (e queste relazioni mentali) riescono a esplorare porzioni molto modeste di quel tutto in cui siamo immersi e, sulla base di quel che mettono in evidenza le nostre “esplorazioni”, costruiamo modelli e rappresentazioni del mondo che, spesso, chiamiamo “realtà” o, talora, “realtà quale ci appare”. La realtà, quindi, è quel che è per i nostri occhi: sono i nostri occhi, i nostri apparecchi, e le nostre facoltà mentali a “costruirla” per come la vediamo. Non avendo accesso a una vera e propria realtà “là fuori”, dobbiamo accontentarci della realtà fenomenica o della realtà definita dai nostri modelli e dalle nostre rappresentazioni. È su quelle che lavoriamo; è con quelle che interagiamo; sono quelle che chiamiamo, un po’ arbitrariamente, realtà. Quando diciamo realtà, quindi, dobbiamo essere consci che ci riferiamo all’entità che percepiamo come tale e che trattiamo come se, fosse vera. Secondo Alfred Korzybsky, la struttura del cervello umano e quella del linguaggio, da una parte consentono di avere un certo accesso alla realtà ma, dall’altra, costituiscono un limite invalicabile a tale accesso. L’accesso alla realtà è consentito solo attraverso astrazioni mentali e da indicatori verbali i quali hanno un ruolo determinante nel creare le nostre stesse astrazioni mentali riguardo alla realtà. Negli ultimi decenni, idee molto simili a queste sono state sostenute da studiosi come Gregory Bateson, Francisco Varela, Humberto Maturana, Fritjof Capra, Robert Lanza. Problema tosto, quello della realtà. Trattare la realtà come se è, in fondo, l’unico mezzo per interagire con essa e per ottenere i risultati che desideriamo da tale interazione. Fare “come se” è una scelta epistemologica e didattica da fare (e far fare) consapevolmente.    
Tenendo presenti alcuni dei limiti riguardanti il concetto di realtà, possiamo prendere per buona la definizione di SkuolaBlog quando afferma esplorare la realtà che ci circonda con la notazione, però, che detta illusoria realtà non ci circonda ma fa parte di una rete e di una costruzione di cui noi stessi in parte siamo artefici e cui noi stessi apparteniamo.   

Quando SkuolaBlog aggiunge che l’esplorazione da parte della scienza viene fatta in modo profondo ed accurato fa una affermazione un po’ pleonastica ma che, molto probabilmente, è opportuna se si considera il destinatario cui la definizione è rivolta. In effetti, una scienza “superficiale e poco accurata” difficilmente potrebbe definirsi scienza: al massimo, potrebbe essere una bozza di ipotesi di lavoro. Sarebbe opportuno che ogni impresa umana, ogni lavoro, ogni compito, ogni impegno, fosse eseguito in modo profondo ed accurato”. Ogni cosa fatta dovrebbe essere fatta così. La scienza, che vuole essere precisa, documentata, ripetibile, dimostrabile e il più possibile predittiva, non può essere fatta altrimenti che in modo profondo ed accurato”. 


Infine, la definizione di skuolablog si conclude col risultato che ci si attende dalla scienza: essa descrive come è fatto il nostro mondo e come funziona”. Personalmente, avrei omesso questa conclusione. I motivi di ciò sono detti nelle considerazioni fatte poco sopra, a proposito della realtà. L’affermazione “descrive come è fatto il nostro mondo e come funziona” presume, in fondo, che la scienza sia in grado di accedere alla realtà e di poterla descrivere. Così non è. La scienza accede a un fantasma di realtà: la realtà che scruta e i meccanismi che legittimamente descrive, anche se li chiamiamo "fatti" e "leggi", sono modelli e rappresentazioni che ci aiutano, e molto, a stare al mondo.






giovedì 1 giugno 2017

MA LA SCIENZA, CHE COS’È? – DEFINIZIONI (parte 3 di 5)

Dopo aver discusso della definizione di scienza data da Wikipedia, è ora la volta di quella citata da Yahoo Answers. Questa, mondata dal terribile errore di ortografia che non la connota positivamente, suona come segue: 

"La scienza è quella disciplina che permette di comprendere in modo sicuro i meccanismi e i fenomeni della natura, permette l'evoluzione tecnologica dell'uomo e espande la conoscenza. Consiste nella ricerca e sperimentazione, con metodo empirico" (Vedi al link).



In questa definizione, oltre all'orrore di ortografia, anche la punteggiatura e l'intero impianto espressivo lasciano molto a desiderare. Stendiamo un velo sulla forma ed esaminiamo la sostanza. A prima vista, questa sembra relativamente chiara: vi si legge un'immagine della scienza che combacia relativamente bene con un'idea di scienza largamente condivisa. Tuttavia, nel corso dell'analisi vedremo che sulle affermazioni contenute nella definizione c'è parecchio da discutere e che, grattata la superficie, resta assai poco e quel che resta non soddisfa la richiesta di sapere che cosa sia, davvero, la scienza.



La definizione di scienza data da Wikipedia e discussa nella puntata precedente affermava che essa è un “sistema di conoscenze”. Pur con qualche perplessità, s'era concluso che la locuzione “sistema di conoscenze” rimanda in modo generico ma adeguato alla complessità cognitiva e metodologica della scienza. Il termine “disciplina” che ci viene qui proposto da Yahoo Answers evoca aspetti correlati al rigore (scientifico? metodologico?) ma è troppo restrittivo e non evoca nulla dell'essenza o dell'anelito cognitivo della scienza. La parola disciplina deriva dal latino discipulus: alunno, allievo. A sua volta, la parola latina deriva dal greco “kapelos” (colui che apprende). In ogni sua connotazione la parola disciplina rimanda alla condizione di discepolo, quello a cui viene trasmessa una dottrina da imparare. Nel termine disciplina, aleggia, anche se inespressa, la parola didattica. C’è tutta la tensione alla trasmissione dottrinale ma non v’è nulla della tensione ad apprendere, a comprendere, a capire, a farsi una rappresentazione propria del mondo. Come disciplina, la scienza è un rubinetto che viene aperto da un insegnante (persona o istituzione che sia) e a cui ci si abbevera e non è, come sarebbe preferibile, una cisterna al cui riempimento ciascuno, se ne ha le capacità, può contribuire. Nella relazione (talora nella contrapposizione) tra “imparare” e “capire”, la disciplina guarda al versante dell’apprendere (ab prehendere) piuttosto che a quello del con-prendere.
Nella tensione dottrinale presente nella parola disciplina c’è anche l’idea (e il compito) di una trasmissione en bloc di contenuti, linguaggi, strumenti, paradigmi, scopi. A questa idea io contrappongo quella di un insegnamento non dottrinale in cui il linguaggio, le informazioni, gli strumenti, i paradigmi e gli scopi siano terreno aperto di problematicità, di critica, di messa in discussione, e di presa in carico responsabile. Spesso, purtroppo, non è così.
Infine, disciplina è una parola che tende a ridurre (escludendo) e non a abbracciare (includendo): una disciplina sportiva, per esempio il nuoto, non rappresenta lo sport nel suo complesso. Quanto alle scienze, l’astrofisica o la biologia molecolare sono discipline e ciascuna di esse rappresenta aspetti particolari e non generali della scienza. Per tutti i succitati argomenti la parola “disciplina” mi pare poco appropriata e concettualmente sbagliata per definire che cosa sia la scienza.

Proseguendo con l'analisi della definizione vediamo che alla parola disciplina segue la locuzione permette di comprendere”. La parola “permette” sottolinea una straordinaria fiducia nella capacità della scienza, attraverso lo studio dei fenomeni, di impossessarsi (prehendere cum) della verità delle cose in sé. Come insegna il buon Kant, tra la cosa in sé e i fenomeni c’è una bella differenza, ma transeat: facciamo "come se". Intendiamoci, “fare come se” è cosa utilissima e la scienza, senza dubbio, si comporta come se i fenomeni costituissero la realtà. D’altra parte, è proprio con i fenomeni che noi umani abbiamiamo a che fare: i fenomeni così come li vediamo. Naturalmente, ci sono alcuni che affermano che i fatti "come li vediamo noi" non esistono e sono i nostri apparati cognitivi e quelli di senso a farceli vedere come tali. Per qualcuno questa differenza tra "ciò che sembra" e "ciò che è" è di fondamentale importanza per invalidare il senso che si attribuisce al termine verità. Per altri, poichè non c'è alcun modo per accedere direttamente a "ciò che è", dobbiamo farci una ragione di questa limitatezza, accontentandoci della conoscenza fenomenica che possiamo trarre da ciò che appare. In questa prospettiva  quella di accontentarci delle apparenze fenomeniche  la parola permette ha qualche pretesa di troppo: ha un che di saccente, di presuntuoso, di positivistico. Tuttavia, poiché normalmente la gente è abituata a ritenere che i fatti siano proprio così come appaiono, il termine "permette" è conforme a questa visione del mondo e della scienza. D'altra parte, noi "vediamo" chiaramente che la scienza interviene proprio su ciò che "vediamo". Vediamo una scienza che, nei fenomeni, coglie quelle relazioni e quei nessi causali che "ci fanno convinti" di poter comprendere come stanno le cose – e poco importa se quelle relazioni e quei nessi causali, in sé, forse non esistono proprio, ma sono costruzioni operate dalla mente dell'uomo nello sforzo di trovare un ordine (e una ragione) nelle cose del mondo. Diciamo quindi, per non farla troppo lunga su questo punto, che, nella sua ingenua superbia, la locuzione “permette di comprendere” è una onesta rappresentazione di come, nel sentire comune, la gente (quella fiduciosa nella razionalità) percepisce i compiti che la scienza si dà e quel che essa ci consente di fare.

La scienza, dunque, secondo il sentire comune, che cosa ci permette di comprendere? Secondo chi si sente soddisfatto della risposta di Yahoo Answers, la scienza ci permette di comprendere “i meccanismi e i fenomeni della natura”. Queste parole lascerebbero intendere che i meccanismi siano inerenti alla natura costituiva dei fenomeni. Su questo di potrebbe discutere. Comprendere i fenomeni – così come s’è detto sopra – equivale a farsi una rappresentazione intellettuale di ciò che appare. Il nostro intelletto è, per sua natura, riduzionista. Per farsi una rappresentazione di un fenomeno, l'intelletto riduzionista deve, per prima cosa, frazionarlo in fasi separate per poi ri-comporre nella mente l'interezza del fenomeno. Il processo di de-costruzione e ri-costruzione comprende anche la nominazione e la reificazione mentale del fenomeno e delle sue fasi: è così che il fenomeno diventa "reale". La rappresentazione del fenomeno in singole fasi rende l'intero (il fenomeno) separabile in premesse o cause (le fasi che vengono prima) e in conseguenze o effetti (le fasi che vengono dopo). L’atto di comprendere, dunque, è un processo complesso in cui un intero, suddiviso in elementi separati, viene assoggettato al senso del tempo (il prima e il poi) che consente di mettere in relazione le cause con gli effetti. A queste relazioni (temporali, spaziali, chimiche, fisiche, ecc.) diamo il nome di "meccanismi". Le cause e gli effetti sono nomi e astrazioni della nostra mente (anche se effettivamente certi fenomeni ne precedono o ne seguono altri). Già Jung (La Sincronicità, 1952) affermava che noi vediamo ovunque solo relazioni causali per il semplice fatto che i nostri sistemi cognitivi non sono capaci di fornirci rappresentazioni di relazioni non causali. Se osserviamo una grande regolarità tra il fenomeno che viene prima e il fenomeno che viene dopo, allora parliamo (la scienza parla) di “leggi”. Sulla base delle “leggi”, la scienza effettua previsioni. Quando le previsioni sono costantemente confermate dai fenomeni, allora si parla di “fatti”. Il problema, con i meccanismi, è che, in natura, essi (e tutto ciò che ne consegue logicamente) come tali non esistono: sono una nostra rappresentazione mentale. Intendo dire che tutta questa faccenda dei fenomeni e dei meccanismi è il frutto della suddivisione mentale di un continuum in frammenti di spazio e in momenti di tempo, in cause ed effetti, in meccanismi. Quando si dice, dunque, “comprendere i meccanismi e i fenomeni della natura” si dice una cosa ragionevole e coerente col comune sentire, purché non si vada ad indagare la cosa troppo da vicino perché, allora, i dubbi sostituiscono le certezze. D'altra parte, però, qualcuno potrebbe dire: "per osservare un panorama, non si può guardare troppo da vicino, bisogna stare a una certa distanza".    


Nella definizione di Yahoo Answers, alla locuzione “comprendere i meccanismi e i fenomeni” seguono le parole in modo sicuro. Queste parolette sono importanti. Sono anch’esse un po’ troppo superbe (suppongono che la certezza sia una categoria dell'indiscutibile, dimenticando che è solo una categoria del possibile). D’altra parte, questa “certezza” (almeno fino all’avvento della meccanica quantistica) è sempre stata la categoria paradigmatica in virtù della quale ciò che appartiene alla scienza è separato e distinto da ciò che appartiene ai domini della metafisica, dei miracoli, della magia. La certezza, intesa come la più alta probabilità immaginabile, è l'attributo costitutivo della scienza, un attributo che si regge su leggi stabilite sulla ripetitività di eventi controllabili e/o misurabili.
Se lascio cadere un sasso, questo cade “sempre” “giù”, a meno che il sasso non venga lasciato cadere in situazioni in cui esistono dimostrabili ragioni fisiche che ne impediscono la caduta. Se le conseguenze di un fenomeno non fossero prevedibili “in modo sicuro” non si tratterebbe di scienza.  Definire la scienza in base all'attributo certezza ("in modo sicuro") è una tautologia, vale a dire spiegare la scienza con la scienza. La fisica quantistica, nel momento in cui si è accorta che certi fenomeni non si accordavano con le certezze della comune fisica newtoniana (che è poi, grosso modo, la realtà fisica intuitiva della nostra scala spazio-temporale) ha dovuto venire a patti con il concetto di “certezza” addivenendo, per i fenomeni che essa studia, al concetto di “certezza probabilistica”.     

Nella definizione che stiamo esaminando, il fatto di comprendere in modo sicuro i meccanismi e i fenomeni della natura permette l'evoluzione tecnologica dell'uomo e espande la conoscenza”. Quanto al problema della conoscenza” – vale a dire sulla differenza tra vero e utile – s’è già detto a sufficienza nella puntata precedente. Se lo scopo della scienza non è quello di conoscere la verità ma è quello più limitato (come sembra voler affermare questa definizione) di migliorare la vita dell’uomo a livello pratico, allora ci si può accontentare di una conoscenza pratica, una conoscenza dell’intelletto che costruisce rappresentazioni e modelli “utili” a migliorare le applicazioni tecnologiche che ci facciano vivere meglio, più a lungo, più coccolati e più felici. Il progresso consiste nel fatto che le conoscenze e le tecnologie migliorino in continuazione e ci permettano di vivere SEMPRE meglio, più a lungo, più coccolati e felici. Il problema è se, e fino a che punto, la scienza si voglia limitare a una conoscenza pratica che si accontenti di un progresso "utile", o non necessiti di una propulsione interna nella direzione di un allettante quanto improbabile "vero".  Su questo tema si può ripensare, per esempio, al passaggio dal modello tolemaico a quello copernicano. I due modelli funzionavano altrettanto bene quando si trattava di andare da qui a lì, per navigare o per muoversi con le carovane lungo la via della seta. Per queste applicazioni, la scienza di Copernico non era più utile della scienza di Tolomeo. Con quest'ultima, però, mandare un robotino su Marte sarebbe stato alquanto complicato. D’altra parte, se dobbiamo arrivare puntuali all’appuntamento col dentista, regolarci in base all’entanglement quantistico non ci sarà di grande utilità. In questa definizione di Yahoo Answers,  l'utile e il vero  corrispondono rispetivamente alla evoluzione tecnologica" e alla "espansione della conoscenza”. Questi sono aspetti relativi che, pur guardando entrambi a un continuo progresso, sono da tenere ben separati e distinti. Queste due anime della scienza –  l'aspetto pragmatico-tecnologico e l'ambizione a conoscere il vero – rappresentano in certo qual modo l'evoluzione cognitiva dell'uomo, in cui sembra quasi di percepire due differenti nature fuse in un unico organismo. Da una parte c'è l'anima dell'animale che, come tutti gli animali, tende all'utile e al confortevole. Dall'altra, c'è l'anima dell'intelletto simbolico e autocosciente, che ambisce a farsi dio onnisciente ("Dovrò pur prendere un modello a cui ispirarmi, no?", Woody Allen, Manhattan, 1979). 

La definizione di Yahoo Answers non si accontenta di dirci che cos’è la scienza, ci fornisce anche informazioni sul come la scienza procede, vale a dire sul metodo: la scienza "consiste nella ricerca e sperimentazione, con metodo empirico".
Sulla questione del metodo spenderemo qualche parola a tempo debito. Qui annotiamo solamente che vengono proposte tre parole importanti (ricerca – sperimentazione  – metodo empirico), e forse ne manca una, altrettanto importante: osservazione.
Se con la parola “ricerca” si intende (come comunemente si intende) “ricerca scientifica”, vale a dire “attività svolta dagli scienziati”, si ricade in una perfetta tautologia dove la parola ricerca definisce se stessa e non se ne ricava nulla. Senso diverso potrebbe avere se al termine ricerca si attribuisse un significato più lato. Si tratterebbe in questo caso di pensare alla ricerca come allo studio, alla condotta di indagini, a osservazioni tese a evidenziare particolari proprietà della cosa osservata o delle relazioni che essa ha con altre cose. In questa accezione, la parola ricerca potrebbe essere utilizzata sia per quanto attiene alle scienze dure sia per quanto attiene alle scienze umane, filosofiche, morali, storiche, fino ad arrivare al senso lato della “recherche” proustiana: una ricerca a tutto spessore sull’uomo – il suo spazio fisico, il suo tempo reale e quello immaginario, la sua anima, i suoi slanci e i suoi deliri.
Quanto alla sperimentazione, questo è un termine che si addice solo alle discipline che riguardano il “qui e ora”: in paleontologia, in cosmologia, o nelle scienze storiche e filosofiche, sperimentare è una questione un po’ complicata. Altrettanto dicasi per quanto attiene al concetto di “metodo empirico”.

In conclusione, la definizione citata da Yahoo Answers si è rivelata più complessa di quanto non apparisse a prima vista, proprio a causa della sua eccessiva superficialità. La definizione è criticabile là dove la scienza è chiamata "disciplina". Là dove parla di meccanismi, essa rimane in superficie e non scava nell'anima della scienza. Quando la definizione nomina la ricerca e l’evoluzione tecnologica essa sfiora inavvertitamente, e senza farvi cenno, temi che certamente appartengono all’impresa scientifica (l’utilitarismo, il relativismo, l’esplorazione finalizzata) senza tuttavia fornire nessuna spiegazione e nessuna cornice interpretativa.