giovedì 27 maggio 2021

Il COVID E LA CALAMITÁ DEL PENSIERO SUPERFICIALE

Nell’edizione online del Fatto Quotidiano (25 maggio) è stato pubblicato un post intitolato E se, senza accorgercene, stessimo diventando come il virus che combattiamo? [CLICCA QUI, se proprio vuoi]

Incuriosito, l’ho letto e vi ho trovato una critica al fatto che, a parte qualche scapigliato negazionista, tutti noi ci siamo adattati più o meno a malincuore a sacrificare una parte di affettività e di “normalità” in cambio di una maggiore sicurezza nei confronti del virus e dei suoi effetti. Una critica condivisa da molti, si dirà. Sì, ma quel che conta sono i modi e le argomentazioni di questa critica, per me assurda ma legittima a livello di opinione personale.

La mia primissima reazione al post, senza ancora aver letto il nome dell’autore, è stata analoga a quella  del mitico ragionier Ugo Fantozzi quando, portato di peso al cineforum per guardare l’altrettanto mitico film La corazzata Potëmkin (Ejzenštejn, 1925), al termine della proiezione esclamava: «... è una cagata pazzesca!».

Fotogramma da La corazzata Potëmkin 

Solo a questo punto ho sollevato lo sguardo per leggere il nome dell’autore e vi ho trovato scritto Diego Fusaro (saggista e opinionista), un laureato in filosofia convinto perciò di essere pensatore e filosofo.

Subito dopo l'iniziale e spontanea reazione ho dovuto rivedere il mio affrettato giudizio, notando quanto il post di Fusaro brillasse di raffinata superficialità. Una banalità di pensiero che non solo offende le centinaia di migliaia di vittime e i loro parenti, ma offende il pensiero tout court. Non a caso, infatti, uno dei molti commenti dei lettori chiede all'autore: le dicono niente i più di 125 mila morti?)”. Un altro lo accusa di aver scritto ciò che ha scritto per voler raccattare residui consensi prima che la crisi abbia fine e un terzo ammonisce Primum vivere, deinde philosophari”.  

Ma che cosa afferma l’autore di tanto banale da costringermi a prendere la penna in mano? Poco di significativo, tutto sommato, e con diverse ripetizioni. Il tutto può essere condensato in un’unica frase: «Il nostro vivere, da più di un anno, è decaduto a mero sopravvivere, a mero desiderio di conservare la propria unità biologica; in nome della logica immunitaria, siamo disposti a rinunziare a ogni qualificazione della vita, pur di guadagnare la sopravvivenza. Una vita despiritualizzata che si riduce a mero processo biologico».

Occorre ragionare un minuto sul concetto di normalità.

La normalità è una strada lastricata: è comoda per camminare ma non vi cresce alcun fiore

Quello che fondamentalmente manca all'analisi dell’autore sulla temporanea sospensione dalla cosiddetta e tanto venerata normalità”, è che questo momento straordinario (proprio perché fuori dall’ordinario) ha offerto un'opportunità unica di cogliere e apprezzare elementi fondamentali della vita (fisica e spirituale) che la “normalità” rende spesso invisibili. Questo dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, tant’è che viene sottolineato anche nei commenti di alcuni lettori i quali affermano, per esempio, «io in questo anno ho continuato a vivere, forse lei a sopravvivere», oppure «ho riscoperto un sacco di cose che mi mancavano cercando di "sopravvivere"».

Molto ci è stato sottratto da questo anno di limitazioni, ma molte persone – direi le più intelligenti e sensibili – hanno scoperto che era proprio la normalità a defraudarli di introspezione e del senso della vita, da ricercare tra le pieghe dei suoi dettagli (un sorriso, una parola, una strizzata d’occhio appena sopra la mascherina, una telefonata, una poesia, una canzone, una pagina di un libro, un’emozione, una passeggiata, la voce di un amico, pensieri in precedenza inesplorati, le forme delle nuvole, e via dicendo).

La conservazione della propria unità biologica (per usare le parole dell’autore) sono la conditio sine qua non affinché noi, i nostri amici e i nostri cari, possano continuare non solo a vivere biologicamente ma anche godere di ogni istante della vita dandogli quel senso profondo che spesso la normalità sommerge di banalità. In maniera diametralmente opposta a quanto afferma l’autore, la vita non viene despiritualizzata ma, al contrario, potenzialmente riempita da nuovi contenuti spirituali. È sufficiente cercarli. È sufficiente provarci. È sufficiente pensarci, cosa che a quanto pare i nostalgici della normalità non sempre riescono a fare, nemmeno nei momenti straordinari.

venerdì 14 maggio 2021

IL COVID E IL DISAGIO DEI SENSI

David Grossman è un autore che mette al centro della propria narrativa il complicato mondo delle emozioni e delle relazioni umane. 

E non è certo un caso che alcuni titoli dei suoi romanzi richiamino direttamente il corpo, le sue azioni, le sue sensazioni: “L’abbraccio”; “Rughe”; “L’uomo che corre”; “Che tu sia per me il coltello”; “Qualcuno con cui correre”; “Con gli occhi del nemico”; “Ci sono bambini a zig zag”; Rughe. Storia di un nonno”; “Col corpo capisco”. In quest’ultimo romanzo, una frase recita: «L’intero corpo talvolta può dolere per la nostalgia di un abbraccio che non c’è più».

Non è nemmeno un caso che nei linguaggi della danza e del teatro il corpo sia al centro dell’azione e dell'espressione comunicativa.  

Foto da una recita del Teatro Patologico, Roma (foto di Riccardo Roberti)

Il corpo, dunque, come fulcro di interazione col mondo. Lo scoppio della pandemia ha sconvolto la relazione reciproca tra corpo e mondo. Ha relegato i corpi all’inatteso ruolo di veicolo del contagio e ha imposto loro una significativa separazione dagli altri corpi, provocando una sorta di mutilazione della loro funzione cognitiva e comunicativa. In conseguenza di ciò, com’è cambiato il nostro modo di conoscere, comunicare, accogliere il mondo dentro di noi e porre noi stessi all’interno del mondo? Cos’è cambiato nell’ineffabile rapporto tra corpo e anima (come dicevano i filosofi antichi) o tra corpo e mente, come diciamo noi, confondendo un poco ciò che appartiene alla ragione e ciò che appartiene allo spirito?

Platone, che poco si curava dei problemi della vita quotidiana degli uomini ma aspirava al più alto e spirituale mondo delle idee, nel Fedone definisce il corpo come una disgrazia, una prigione che impedisce all’anima di accedere alla conoscenza pura: «fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo».   

Confrontato a Platone, su questo tema Aristotele sembra quasi un illuminista quando, superando addirittura d’un balzo quello che sarà il dualismo cartesiano tra corpo e realtà psichica (anima e ragione), afferma  che quest'ultima è un «atto del corpo», vale a dire che anima e corpo sono un’unica indissolubile articolazione di materia e di forma (Sull'anima).[1]

Oggi ci sentiamo più vicini ad Aristotele che non a Platone e ben supportati dalle solide conoscenze della fisiologia, prendiamo per buono il fatto che il mondo entri in noi attraverso gli organi di senso. Alla scuola elementare insegnano che l’uomo possiede cinque sensi: vista, gusto, tatto, udito, olfatto. Qualcuno osa di più, aggiungendone altri. Tra questi, la percezione termica è un senso importante quando ci si rapporta fisicamente col mondo, mentre il cosiddetto senso del tempo è fondamentale per stabilire una relazione dinamica tra noi e il mondo. Questo entra dunque dentro di noi attraverso gli organi di senso e, una volta incarnato nella memoria e tradotto in modelli e relazioni, diventa esperienza e conoscenza, disseminando nella mente i punti di riferimento necessari a definire la forma, la sostanza e le relazioni attraverso cui identifichiamo noi stessi e gli altri. Durante la pandemia il mondo dei sensi, in particolare quelli tattili, termici e il senso del tempo, sono entrati in crisi a causa soprattutto del distanziamento e dell'isolamento. 

Una nozione scientifica relativamente recente che ha a che fare con la relazione tra le persone è quella dei cosiddetti neuroni specchio, scoperti nel 1995 da un gruppo di ricercatori dell'Università di Parma (Giuseppe Di Pellegrino, Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallesecoordinato da Giacomo Rizzolatti. Molto si è discusso e si discute ancora sulla funzione di questi neuroni e sul loro ruolo nello sviluppo di peculiarità umane. Un fatto assodato è che tali neuroni si attivano osservando gli altri compiere dei gesti. Tale attivazione consente di incorporare il gesto altrui nei circuiti neuronali di chi ha solo osservato quel gesto. Incorporare dentro di sé i gesti altrui è un po’ come mettersi nei panni altrui e questo è un meccanismo che prelude all’empatia, vale a dire condividere con l’altro il sentire, anche i sentimenti più profondi.

neuroni specchio à empatia

L’empatia dunque è un costrutto che richiede un’interazione quanto più prossima con l’altro. Il distanziamento sociale, le mascherine che coprono il viso, l’interazione esclusivamente telematica, sono tutte condizioni che limitano l’azione dei neuroni specchio, rendendo più problematica la relazione empatica. Per fortuna, la specie umana ha coscienza del proprio apprendimento culturale. Questo fa sì che l’azione del neurone specchio possa essere vicariata dall'idea di ciò che crediamo l’altro senta in una determinata condizione, salvando in tal modo una buona parte delle nostre relazioni empatiche.

Le misure di contenimento della circolazione del virus (il distanziamento fisico e la mascherina), ci limitano il contatto visivo e ci privano di quello fisico, per esempio un abbraccio, con le persone. La conseguenza di questo contatto dimezzato è che non percepiamo più – attraverso i sensi – il calore, l’odore, la consistenza fisica, le rughe attorno alla bocca e così via delle persone con le quali entriamo in relazione. Ci vengono a mancare stimoli fisici di varia natura che costituivano, fino a ieri, l’essenza e l’identità delle persone con le quali entravamo in relazione. Questa alterazione sensoriale genera confusione e comporta ulteriore distacco, anche sul piano mentale. Sorprendentemente però, appartenendo a una specie relativamente sociale, di fronte di questa situazione inconsueta ci viene spontaneo cercare un nuovo adattamento. Entrando in questa relazione dimezzata con le persone, ci troviamo così, a poco a poco, a registrare e a incarnare dettagli che in precedenza andavano persi. Notiamo maggiormente la postura, registriamo note della voce che in precedenza non avevamo notato e, in luogo della mimica delle labbra, registriamo ora la mimica degli occhi. Insomma, deprivati di alcune sensazioni fondamentali, andiamo alla scoperta di altre che prendono il posto di quelle perdute. Perdiamo alcuni punti di riferimento ma scopriamo nuovi segnali.   

Il distanziamento dalle cose e dalle persone imposto dalla pandemia, il prendere le distanze dai corpi degli altri ma anche dalle nostre stesse mani (potenziale vicolo di infezione), la riduzione della perlustrazione fisica del mondo, la reclusione del corpo e dei suoi sensi in bolle autonome e individuali, tutto ciò provoca una deprivazione sensoriale che a lungo andare provoca disadattamenti, per quanto ci sforziamo di trovare adattamenti alternativi.

C’è un altro elemento, un’altra causa molto importante di disadattamento di cui però poco si parla. Se da una parte lo spazio attorno a noi si restringe (non si viaggia, si lavora e si studia tra le pareti di casa, si passeggia o si pratica sport nelle immediate vicinanze di casa”), il tempo al contrario si dilata. A volte si ha la sensazione di essere bloccati in una bolla di presente, di non riuscire a strutturare la dimensione futura del tempo e di non riuscire a pianificare le nostre azioni in quella dimensione. Questa condizione rischia di “uccidere” la dimensione del desiderio, perché questo trova i suoi punti esistenziali di riferimento proprio nella dimensione del futuro, nella pianificazione simil-onirica di azioni e avvenimenti che si dovranno svolgere in quella dimensione che va a poco a poco atrofizzandosi nella mente, come se tra il presente e il futuro si fosse frapposta una cortina di fumo, o un colpo di vento avesse spazzato via le lancette degli orologi.

Immagine dal film “Il posto delle fragole” (Ingmar Bergman, 1958)

Le neuroscienze una certa idea di come il cervello elabori la dimensione spaziale ce l’hanno. Ma di come la mente elabori la dimensione temporale e quali siano le dinamiche attraverso cui si genera il cosiddetto tempo soggettivo”, vale a dire quella fisarmonica che allunga o restringe la coscienza del trascorre del tempo in relazione alla sfera emotiva, di tutto questo le neuroscienze ci dicono ancora troppo poco. Ci dicono, per esempio, che il senso del tempo viene elaborato dal sistema limbico assieme alle reazioni emotive, ai meccanismi della motivazione e della gratificazione. Molto più di così, su come si generi il senso del tempo, le scienze ahimè non sanno dire.

La struttura paleoencefalica chiamata sistema limbico è costituita da più elementi, qui evidenziati con colori vivaci

Se le scienze, quelle dure, non se la sentono proprio di porre ipotesi sull’argomento, la psicologia e la filosofia lo fanno. Eccome se lo fanno! E allora, molto di ciò che sappiamo o crediamo di intuire sull’argomento deriva ancora dalla psicologia (scienza “molle” che da decenni ha adottato con rigore il metodo scientifico) e da approcci filosofici che, da William James a Husserl e a Heidegger, da Merleau-Ponty a Bergson e a Ortega y Gasset, hanno sempre intessuto con la psicologia grandi storie d’amore.



[1] Su questi temi vedi anche Sara Drioli: Essere corpo. Fra la filosofia fenomenologica e la pratica clinica (LINK)