Prima della vacanza estiva (vacanza à dell’esser vacui ovvero liberi da occupazioni mentali) mi ero lungamente speso nel tentativo di trovare una definizione di scienza che fosse sufficientemente larga per contenere tutto ciò che, a mio giudizio, la scienza È e sufficientemente restrittiva per lasciar fuori tutto ciò che la scienza NON È.
La ricerca di una definizione veramente
soddisfacente era stata infruttuosa. Alla fine avevo affermato che, in fondo, si
potrebbe arrivare a definire che cos’è la scienza analizzando il metodo che
essa usa, individuando proprio nel metodo il possibile discrimine tra ciò che la scienza è e ciò che essa non è. Detto fatto. I post
che seguono (tre in tutto) cercano di mettere sotto la lente d’ingrandimento il
cosiddetto METODO SCIENTIFICO, dopo
di che, forse, si potrà finalmente trovare la strada per una soddisfacente
definizione di scienza. In questi post si parlerà dell’intreccio inevitabile tra
scopo e metodo, di scienze dure e molli (semidure e semimolli
incluse); si parlerà di sperimentazione e di misurazione, di Weltanschauung e di “come se”; di metodo induttivo e deduttivo; di
errore, condivisione, falsificazione. Si parlerà di riproducibilità e di
riduzionismo, ma anche di caso, di dubbio, di ribellione, e, perché no, di
poesia. Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia ed è ora di mettersi in
viaggio.
Il metodo scientifico: una rappresentazione ipersemplificata |
Che cos’è, dunque, il metodo
scientifico?
In principio, uno SCOPO
Per avere un metodo è necessario, prima, avere uno scopo. Intuitivamente, è lo scopo a guidare il metodo: scopi
diversi, metodi diversi.
Lo scopo della scienza, qual è?
LO SCOPO |
Per la scienza in generale, e per ciascuna disciplina in particolare, lo scopo generico è migliorare la conoscenza, ma gli scopi di ciascuno sono inestricabilmente vincolati alla propria visione del mondo. Nei precedenti post s’è già detto
qualcosa sull’argomento. Per esempio, s’è accennato al fatto che ci sono due principali visioni, non inconciliabili ma certamente molto diverse, su quale sia lo scopo della scienza. È presto detto. Da una parte ci sono coloro che ritengono
che lo scopo della scienza sia definire
in maniera “vera e oggettiva” che cosa c’è là fuori e come funziona.
Dall’altra parte, ci sono coloro che ritengono che lo scopo dei primi sia
illusorio, irrealizzabile e anche sbagliato. Per costoro, lo scopo della
scienza è acquisire informazioni sempre
migliorabili sui fenomeni del mondo per poterli prevedere e per
poter agire su di essi per rendere più semplice, più sicuro, più lungo, più
confortevole il nostro soggiorno nel mondo. Inutile dire che, personalmente, appartengo a questa seconda schiera e che i punti di vista che esprimo
dipendono in gran parte da questa appartenenza.
Gli scopi della scienza, dunque,
non appartengono alla scienza: non sono costitutivi di essa. Appartengono a chi
fa scienza e fanno parte della sua Weltanschauung.
In parole povere, sembra che lo scopo della scienza (o il fine che chi fa scienza
le attribuisce) dipenda da posizioni teoretiche, filosofiche (e anche
empiriche) che precedono il far scienza e di cui lo scienziato che opera sul
campo non è sempre del tutto consapevole.
La questione degli scopi potrebbe
coinvolgere anche la questione – sempre più attuale – delle differenze (e delle
similitudini) tra scienze dure e scienze
umane (scienze molli). La questione degli scopi potrebbe addirittura
scavare distinguo e solchi profondi
tra le diverse scienze molli, le quali sembrano compatte e omogenee quando
confrontate all’intero pacchetto delle cosiddette scienze dure, ma si rivelano
eterogenee quando si confrontano l’una con l’altra.
Cerchiamo di fare un po’ d’ordine
e parliamo di una cosa per volta.
Duro come una pietra, soffice e morbido come una piuma |
Scienze DURE e scienze MOLLI
Parliamo prima di scienze dure, quelle che vengono in
mente per prime quando si pensa genericamente alla scienza. Riflettendo sulle scienze dure, dobbiamo per prima cosa
esaminare se davvero le differenti Weltanschauung,
oltre a influenzarne gli scopi, influenzano anche il metodo da utilizzare per far sì che la scienza sia davvero
tale. Per fare ciò, è necessario per prima cosa indicare chiaramente a quali
scienze si applica l’attributo “dure”. Si tratta essenzialmente della fisica e della chimica e,
limitatamente ad alcuni aspetti, della biologia. La misurazione, la sperimentazione, e l’oggettività sono i criteri principi per dire che una scienza è dura.
Senza contare la vaghezza e la criticabilità
del termine “oggettività”, si vede fin da subito che, per lo meno in fisica e
in biologia, ci sono grandi aree in cui la sperimentazione non è praticabile.
In biologia, per esempio, alcune sperimentazioni sulla vita non sono possibili
senza spegnere la vita stessa, mentre in fisica, non sono praticabili sperimentazioni
su buchi neri, supernove o particelle quantiche tra loro legate ma che si
trovano ai lati opposti dell’universo. La fisica che studia i buchi neri, quindi, se non si possono fare esperimenti sui buchi neri medesimi, cessa di essere scienza? Ciò rende del tutto evidente che anche i criteri che definiscono in modo perentorio che cosa è scienza e che cosa non lo è devono essere presi con una certa elasticità.
Quanto alle scienze molli, con tale temine si intendono le discipline nelle
quali l'analisi qualitativa dei dati è quantomeno pari se non superiore all’analisi
quantitativa, ovvero sulle operazioni conseguenti alla loro misurazione. Tutte
le discipline umanistiche e le
cosiddette scienze sociali appartengono
a questa area. Quelli che abbiamo visto essere i criteri principe delle scienze
dure (misurazione, sperimentazione,
l’oggettività) pur trovando largo impiego anche nelle scienze molli non ne
costituiscono il cardine metodologico, affidandosi discipline come la storia,
la filosofia, la letteratura, la sociologia e varie altre a criteri d’analisi
d’altra natura.
Oltre alle scienze dure e a
quelle molli, si deve considerare l’esistenza di una serie di discipline che stanno a metà strada tra le une e le altre e
che io chiamerei scienze “semidure”:
parlo della medicina (che è la disciplina all’interno della quale mi sono
sentito scienziato), dell’astronomia, delle scienze naturali (zoologia,
botanica, etc.), ed altre con rilevanti aspetti applicativi come le scienze
psicologiche o le scienze economiche (potremmo
chiamarle App? oppure “semimolli”?), che necessitano di
rigore, di metodi e di scopi decisamente scientifici per poter esplicare funzioni che siano coerenti con le proprie aspirazioni.
Il comune territorio del “come se”
Ma torniamo alla questione da cui
siamo partiti: quella dello scopo della scienza e se lo scopo condizioni il
metodo. S’è visto che a seconda della visione con cui si guarda al mondo, chi
si occupa di scienza può avere due tipi di scopi: uno è la “verità oggettiva”, l’altro è una “conoscenza utile”.
A prima vista si potrebbe pensare
che la “conoscenza utile” stia un gradino più in basso rispetto alla “verità
oggettiva”. La “conoscenza utile” si pone sul livello del relativo; la “verità
oggettiva” si pone sul livello dell’assoluto. La prima si può accontentare di misurazioni e di previsioni di un livello sufficiente per risultare utili; la seconda richiede misurazioni e previsioni perfette,
indiscutibili, assolute. L’esperienza ci insegna che ciò, semplicemente,
non è possibile e che anche la “verità oggettiva” deve necessariamente accontentarsi
di essere approssimata e migliorabile
e non può essere, come vorrebbe, né verità né assoluta. Ma c’è di più, è la
stessa identità statutaria della scienza a definirsi falsificabile e
perfettibile. Quindi, non desta nessuno scandalo che la “verità oggettiva”, sia
solo una mezza verità. Se le cose stanno così, allora, una mezza verità e una
conoscenza utile cominciano a giocare su un terreno comune, un terreno di
quasi-equiparazione. D’altra parte, chi si accontenta di una conoscenza utile,
non si pone limiti riguardo alla qualità della propria conoscenza e vuole tendere
alla conoscenza più profonda possibile, che poi è lo stesso livello di conoscenza
che può raggiungere chi si pone come obiettivo la verità oggettiva e assoluta.
Sul piano delle possibilità, pertanto, le due visioni convergono nel medesimo punto.
Chi desidera raggiungere la verità assoluta, considererà il suo attuale livello
di conoscenza “come se” fosse un
livello assoluto, oltre al quale non s’è potuti andare. Chi desidera
raggiungere la più profonda conoscenza utile, si comporta “come se” il suo livello di conoscenza sia, in assoluto, il più
elevato possibile, altre al quale non si è ancora andati. Le due visioni, quindi, e
i loro rispettivi scopi, si incontrano a livello comportamentale e di
consapevolezza nel comune territorio del “come
se”, e più in là di così non possono andare. Nel territorio condiviso del “come se”,
aspirando entrambi a raggiungere il livello più elevato possibile di
conoscenza, entrambi devono usare tutti i metodi disponibili per esplorare,
misurare, ipotizzare, sperimentare, e quant’altro sia utile per “conoscere” il
conoscibile del mondo, sia che lo si voglia considerare reale sia che lo si
voglia considerare realtà apparente o fenomenica.
Il cardinale Roberto Bellarmino |
Le due contrapposte Weltanschauung sono inconciliabili così
come sono inconciliabili strumentalismo ed essenzialismo, sebbene alcuni
filosofi (per esempio Karl Popper) abbiano tentato impossibili mediazioni. Tuttavia,
nel territorio del “come se” si può
giungere ad un armistizio e valutare se le due visioni implichino, davvero, il
ricorso a “metodi scientifici” diversi. È utile fare un esempio di come
diverse Weltanschauung che esprimono
visioni del tutto diverse sulla cosiddetta realtà e sull’approccio
“scientifico” da tenere nei confronti della realtà medesima, in fondo, sul
piano metodologico non siano poi così distanti come credono di essere. Prendiamo
il più classico dei casi di controversia scientifica e di Weltanschauung contrapposte: il caso del Tribunale
dell’Inquisizione e di Galileo.
La Chiesa – per “fede” o per “potere” – aveva il “dovere” di affermare, come
premessa, che la verità vera e unica, quella con la V maiuscola, è quella
rivelata nelle scritture: quella verità non è discutibile, è accessibile
attraverso la fede mentre non lo è attraverso il laico e umano ragionare. È lecito, invece, discutere circa il modo
con cui gli uomini cercano di comprendere i fenomeni del mondo, come si
rapportano con essi, come li prevedono e li manipolano a loro uso e consumo. L’importante è che gli uomini non mettano in discussione la Verità (V). Quanto
alla posizione degli astri, alla conoscenza delle loro dinamiche e all’utilizzo
umano di tali nozioni, le formule tolemaiche o quelle copernicane, dal punto di
vista della Chiesa, sono pure rappresentazioni e applicazioni strumentali che
“salvano le apparenze”. Esse sono entrambe di estrema utilità (quelle
copernicane forse più semplici e più utili di quelle tolemaiche) ma non
“spiegano nulla” della verità del mondo, se non che la rappresentazione
tolemaica, per il fatto di essere geocentrica, meglio si accorda con le
Scritture. Per la Chiesa, lo scandalo è che Galileo non considera il modello
copernicano come una “rappresentazione strumentale” per fare predizioni, ma lo
considera una rappresentazione “vera” del mondo. In tale situazione, lo stumentalismo della Chiesa si
contrappone all’essenzialismo di
Galileo. Così il cardinale Bellarmino ammoniva Galileo durante il primo processo a suo carico: “Galileo agirà prudentemente se parlerà ipoteticamente,
ex suppositione: il dire che rendiamo conto delle apparenze, supponendo che la
terra si muova e il sole sia in quiete, meglio di quanto possiamo fare usando
l'eccentriche e gli epicicli, è parlare propriamente: non c'è pericolo, in
questo, e questo è tutto ciò che il matematico ha bisogno.” In verità,
Galileo prendeva le debite distanze dall’idea di cercare l’essenza ultima delle cose o di conoscere la realtà che si
manifesta nei fenomeni. Dice infatti Galileo: “ Il
tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men
vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me
pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle
nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell’intender queste
sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma tutti
egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o
niuno acquisto dall’uno all’altro”.
Sul METODO SCIENTIFICO (parte I)
È ora di farsi qualche domanda.
Quali sono dunque questi metodi su
cui si basa l’agire scientifico? Quali procedure e quali processi mentali
implicano? Esiste davvero un metodo scientifico? Definisco la scienza in base
al metodo che usa o definisco scientifico un metodo perché è usato da chi fa
scienza? (Nell’ultima domanda vedo il serpente tautologico che si mangia la
coda).
Un metodo, per essere definito
tale, credo debba avere una duplice natura: deve essere uno strumento d’utilizzo
pratico e, contemporaneamente, deve essere una (pre)disposizione d’animo. Lo
strumento per risolvere i problemi non può essere dissociato dalla disposizione
d’animo con cui i problemi si affrontano. Questo vale per qualunque metodo e il
metodo scientifico non fa eccezione.
Una delle prime definizioni di
metodo scientifico è rintracciabile, oltre 11 secoli fa, nelle parole del
medico, filosofo, astronomo islamico Alhazen
(Ibn al-Haytham, 965-1040),
grande esperto di ottica e di visione, il quale sottolineava l’importanza della
sperimentazione
pratica, là dove è possibile, nelle indagini sulla natura. Fu poi Francis Bacon, nel Novum Organum (1620),
a formalizzare per primo l’idea di “metodo
scientifico”, noto ancor oggi come metodo baconiano. Egli fu il primo a escludere il sillogismo dalle
procedure “scientifiche”, confinandolo alle procedure logico-filosofiche. Il
sillogismo come pura tecnica logica può portare a grossolani errori nel caso in
cui uno dei termini sia errato. Tuttavia, la pratica del sillogismo (se A = B e
se B = C, allora A = C) ha ancora una sua utilità nel ragionare scientifico, in
modo particolare quando si pongono ipotesi.
Il metodo baconiano è quello del
ragionamento INDUTTIVO: osservare il fenomeno, raccogliere sistematicamente
i dati qualitativi e quantitativi inerenti il fenomeno, analizzare ed elaborare
i dati riguardanti il fenomeno in modo da trarne (INDURRE) leggi generali che
governano e/o descrivono le dinamiche del fenomeno.
Bacon aveva anche molto opportunamente
sottolineato la natura COLLETTIVA della scienza: la scienza come “luogo” in cui gli studiosi apportano
il loro materiale, le loro osservazioni, le loro misurazioni, accumulandole e
condividendole. “Gli empirici",
affermava, “sono come formiche: accumulano
e usano. I razionalisti tessono tele come i ragni. Ma il metodo migliore è
quello delle api perché si comportano un po’ come i primi e un po’ come i
secondi: traggono il materiale esistente e lo utilizzano”.
Rispetto alla logica filosofica che si basava ampiamente sull’autorità degli antichi maestri, il metodo baconiano è stato rivoluzionario e fa parte tutt’ora del bagaglio metodologico dello scienziato: osservare il fenomeno e le sue varianti, ipotizzare leggi generali, sperimentare. Per sperimentazione bisogna intendere la ripetizione governata del fenomeno introducendo anche variabili che perturbano il fenomeno medesimo, per capire se le leggi generali ipotizzate si confermano oppure no. L’esperimento deve essere disegnato proprio per mettere alla prova dei fatti le leggi ipotizzate. C’è un rigore intrinseco, quasi meccanico, nel metodo induttivo baconiano.
Tale metodo è considerato da
taluni il metodo principe per chi fa scienza, forse l’unico meritevole di
essere chiamato “scientifico”. Il metodo
induttivo ha uno scopo preciso: partendo dalle
osservazioni di specifici fenomeni, determinare delle Leggi generali che spieghino come funziona il mondo e che
consentano di predire particolari fenomeni. Al giorno d’oggi, anche se
aggiornato in alcuni dettagli, il metodo induttivo segue pari pari la logica
baconiana:
Osservazione del fenomeno à ripetizione del
fenomeno à
misurazioni riguardanti il fenomeno à
esperimenti sul fenomeno (perturbazione delle condizioni in cui si verifica il
fenomeno) e misurazioni correlate à
verifica delle misurazioni e confronti tra misurazioni à definizione di un
modello fisico generale riguardante il fenomeno à
formulazione di ipotesi contestualizzando il fenomeno nel modello prefigurato à definizione di un
modello fisico-matematico per analizzare il fenomeno e le sue varianti
sperimentali à
disegnare esperimenti che forniscano informazioni su specifiche caratteristiche
del fenomeno à
mettere in atto gli esperimenti ed effettuare le misurazioni pertinenti à confrontare gli esiti
dell’esperimento e le misurazioni pertinenti à
formulare una teoria generale à
disegnare ulteriori esperimenti di verifica à
in base ai risultati … accettare o
rigettare le ipotesi particolari e le teorie generali.
Un esempio di metodo induttivo è quello con cui si può determinare una “legge” riguardante la
forza gravitazionale. Si osserva il fenomeno di una mela che cade da un albero.
Si ripete più volte l’osservazione del fenomeno per verificarne la
ripetibilità, ovvero la non occasionalità. Si sottopone il fenomeno a varianti
per valutarne l’universalità (ottenendo, per esempio, risultati analoghi usando
mele, pere, sassi, e oggetti di varia natura). Si effettuano misurazioni. Si
notano differenze tra la velocità di caduta dei sassi, delle mele, delle piume.
Si formulano ipotesi e si definiscono modelli fisici che tengano conto delle
varianti. Si disegnano esperimenti che aboliscano l’effetto di certe varianti
(per esempio, si fanno cadere gli oggetti all’interno di un tubo nel quale sia
stato creato il vuoto per eliminare l’effetto dell’aria); si effettuano gli esperimenti e
si fanno misurazioni. Si confrontano le misurazioni. Si ipotizza una
teoria generale per la caduta dei gravi e si definisce matematicamente
l’accelerazione con cui i gravi precipitano a terra. Si disegnano altri
esperimenti di verifica o di confutazione: per esempio si fanno cadere altri
tipi di oggetti, oppure si effettuano esperimenti a quote diverse (a livello
del mare e in cima a qualche alta montagna, nelle regioni polari e
all’equatore). Si confrontano le misurazioni. In base ai risultati, si dichiara verificata o confutata la teoria
generale sui gravi.
Traendo risposte generali da fenomeni particolari, il metodo induttivo presuppone che i singoli fenomeni particolari siano rappresentativi della universalità di quel determinato tipo di fenomeno. Se avessimo osservato sempre e solo i pesci rossi di un aquario, potremmo indurre che tutti i pesci sono rossi. Ciò non è universalmente vero, mentre lo è all’interno di quello specifico acquario. Il metodo induttivo, quindi, ha determinanti limiti per quanto riguarda la generalizzazione delle conclusioni cui può pervenire. A proposito di questi limiti, un simpatico paradosso è quello del tacchino induttivista, posto dal filosofo e matematico inglese Bertrand Russell: il contadino americano nutre il suo tacchino con regolarità tutti i giorni fin da quando il tacchino è uscito dall’uovo. Il tacchino, quindi, è autorizzato a pensare – induttivamente – che anche domani verrà regolarmente nutrito. Purtroppo per lui, “domani” è il Giorno del Ringraziamento: il tacchino non solo non sarà nutrito, ma finirà con l’essere lui stesso il nutrimento del contadino. Il ragionamento induttivo del tacchino ha fornito predizioni fenomeniche sbagliate.
Il tacchino induttivista |
Come si vede, il metodo induttivo – il metodo principe dell’agire scientifico – ha anch’esso i suoi limiti. Col prossimo post passeremo sotto la lente d’ingrandimento altri aspetti del metodo scientifico.
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