Chi ha letto 1984 di George Orwell o chi si fosse imbattuto – chissà come – nel mio Non fare troppe domande, sa bene di che cosa si parla quando si nomina il Ministero della Verità (o Miniver, nella neolingua orwelliana). Il Ministero della Verità ha sede in una enorme piramide di cemento. Sul suo frontone si legge: La guerra è pace, L'ignoranza è forza, La libertà è schiavitù.
Nella creazione di Orwell, chiunque sia sospettato
di pensare in modo non ortodosso viene arrestato. Al malcapitato viene
applicata la damnatio memoriae: di lui viene rimossa ogni traccia, ogni
ricordo individuale o collettivo.
Compito del Ministero della Verità – omettendo
quel che c’è da omettere, modificando quel che c’è da modificare, falsificando
quel che c’è da falsificare, inventando quel che c'è da inventare – è riscrivere in continuazione le notizie di
cronaca, i giornali, gli archivi, i libri di storia, e tutto ciò che appartiene
alla comunicazione e alla trasmissione della cultura, testi letterari compresi. Tutto ciò, al fine di rendere tutti i documenti perfettamente in linea con l’ideologia e con
gli scopi attuali del partito (quello al potere, si intende). Un compito immane. Orwell immaginava
che per realizzare tutto ciò fosse necessaria un’enorme organizzazione: il
Ministero a ciò adibito era costituito da migliaia di stanze gremite di migliaia e
migliaia di addetti. Ciò che per Orwell rappresentava uno sforzo organizzativo
colossale, grazie all’attuale possibilità di digitalizzazione di documenti e di immagini è reso alla portata quasi di chiunque.
L’articolo intitolato Videomanipolazione: La realtà è ciò che sembra, che Massimo Gaggi pubblica su La Lettura di questa settimana (#331,
1° aprile 2018, p. 11), tratta proprio di questa neonata facilità di poter agire sulla matrice dei "fatti", manipolandoli a proprio piacimento. “I tentativi di alterare le rappresentazioni
della realtà dei fatti sono vecchi come il mondo”, afferma Gaggi, ma oggi manipolare i “fatti” è
diventato così semplice che rischiamo “di
essere travolti da una crisi di disinformazione planetaria”. Questa è l’autorevole
opinione di Aviv Ovadya che dirige lo staff tecnologico del Centro per la
Responsabilità delle Reti Sociali dell’Università del Michigan: egli si
riferisce a tale spettro definendolo
INFOCALYPSE
Falsificare in modo
credibile documenti, immagini, filmati, tracce audio e così via sta diventando
sempre più facile e le “APP” a ciò dedicate si diffondono a macchia d’olio,
consentendo a chichessia di inventare “fatti” di
sana pianta, di "cancellare" persone, di modificarne i discorsi o i profili sociali. Se ciò può essere fatto per gioco da qualsiasi stupido, pensiamo
fin dove possono arrivare disinvolti istituti tecnologici al soldo delle cattive idee. La manipolazione dell’informazione è diventatata così
pervasiva da rendere ormai fortemente sospetto il risultato di qualunque consultazione democratica: elezioni politiche, di governi, di capi di stato. È
sempre stato così, si dirà! È vero, ma oggi gli strumenti di
manipolazione che erano al servizio di pochissimi potenti (e come tali più
facili da sorvegliare) stanno diventando sempre più “democratici”, vale a dire
a disposizione di molti e, pertanto, molto più complicati da tenere sotto
controllo.
C’è grande preoccupazione nel
mondo per questa situazione dagli sviluppi imprevedibili in cui il vero e il falso diventano
difficilmente distinguibili. Istituzioni politiche, istituti di informazione,
esperti di tecnologie informatiche, lanciano l’allarme e, ovunque nel mondo, si
incontrano in vari brainstorming per
cercare soluzioni che, però, sono ben lontane dall’essere individuate. Che
fare, dunque?
Nell’attesa che i cervelloni
trovino improbabili soluzioni a problemi che altri cervelloni (o forse gli stessi?) hanno contribuito a provocare, dovremo cercare in
noi stessi – individui e collettività organizzata – soluzioni non informatiche
al problema: dovremo cercarle nell’uso del nostro stesso cervello, rendendolo
più selettivo, meno prono e più critico ai flussi di informazione che ci arrivano
dall’esterno. È una questione che deve essere affrontata, credo, agendo sulla formazione e sulla cultura, o meglio ancora, sulla formazione alla cultura e alla competenza.
Chi non conosce la Storia, è facile vittima dei falsi
storici; chi non conosce le Idee,
la loro origine e i portatori di idee, è vittima predestinata dei falsi
ideologici. Bisogna sapersi dotare – e in questo la scuola dovrebbe
ripensare se stessa – degli strumenti per imparare a conoscere, per imparare
a distinguere. Ma la scuola, da sola, non basta: ognuno ha la responsabilità personale di allevare se stesso. Se non lo fa, rischia una pena severa: essere burattino credendosi libero. È necessario liberarsi dal terribile inganno
di “uno è uguale a uno”. Ci servono
punti di riferimento saldi, cose e persone su cui riporre fiducia, cose e persone su
cui costruire il nostro conoscere e il nostro saper distinguere: per far ciò è necessario riconoscere il valore della competenza e
del sapere autentico. Se non vogliamo essere costantemente ingannati, dobbiamo cominciare a riflettere su noi
stessi e a come vogliamo attrezzarci per essere autenticamente “liberi”.
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