mercoledì 11 dicembre 2019

LA STRANA E MISTERIOSA NATURA DEL NUMERO


In tutte le civiltà i numeri sono stati parte integrante della vita, dell’azione, della storia e della civilizzazione dell’uomo. Essi sono sempre con noi, alla stregua di oggetti naturali da cogliere e utilizzare a piacimento. Tale e tanta è la consuetudine che abbiamo con essi e la dimestichezza con cui li maneggiamo che nemmeno ci viene in mente di interrogarci sulla loro natura, o sulla loro reale esistenza.   

Nella storia dell’uomo troviamo i primi numeri scritti nelle tavolette d’argilla babilonesi. Molte di queste registravano compravendite, transazioni, gestioni di magazzino per lo stoccaggio del grano o del vino, registrazioni dei compensi per gli operai. Un uso pratico, dunque. Ma l’uso pratico del numero è cosa ben più antica. Ne hanno certamente fatto buon uso anche i popoli delle caverne antecedenti a qualunque genere di scrittura. Non è difficile immaginare un cavernicolo che informa la moglie di avere catturato “due” conigli o nell'atto di minacciare un figlio recalcitrante di dargli “quattro” scoppole.

Ma nelle tavolette babilonesi scritte in caratteri cuneiformi troviamo già molto di più. Vi si trova la matematica già in forma quasi astratta. Famosa è la tavoletta chiamata Plimpton 322 (dalla collezione Plimpton della Columbia University), risalente a circa duemila anni prima dell’era cristiana. Vi è incisa una tabella di numeri (4 colonne per 15 righe), riportante una lista di soluzioni del teorema di Pitagora.
Tavoletta babilonese detta Plimpton 322
I numeri, dunque, esistono da sempre nel senso che da sempre l’uomo li usa. E non solo l’uomo! Si sa per certo che molti animali sono capaci di distingue differenze di numero tra insiemi (per esempio frutti) di poche unità, da due a cinque o incerti casi fino a nove. Ciò farebbe pensare che i numeri sono qualcosa che esiste in natura. Se non ci concentriamo molto sulla faccenda ci viene spontaneo ammettere che i numeri siano un fatto naturale ma se ci ragioniamo un po’ meglio qualche dubbio potrebbe anche venirci.

I numeri, dunque, esistono davvero in natura o sono una invenzione dei cervelli come quello dell’uomo e di qualche altro animale?

Sulla questione Galileo sembrava non avere dubbi: L’universo non si può intendere se prima non s’impara a conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche (Il Saggiatore, 1623). D’altra parte Galileo era uno scienziato, e lo scienziato, si sa, deve misurare, soppesare, confrontare, e i numeri servono proprio a questo: sono un modo per descrivere qualcosa.

Ma i numeri sono qualcosa di reale, nel senso che esistono in natura, o sono strumenti ideati per descrivere, comprendere, progettare, eseguire? A sentire Galileo i numeri esistono in natura, ne sono una componente strutturale e la natura può essere compresa solo attraverso essi. Per Platone, al contrario, i numeri esistono nel mondo delle idee, quello stesso mondo che Karl Popper indicava col nome di mondo 3: il mondo dei “contenuti oggettivi di pensiero”, specialmente dei pensieri scientifici, di quelli poetici e delle opere d'arte. A questo mondo delle idee, però, appartengono anche “oggetti” (come la poesia e l’opera d’arte) non pienamente comprensibili e descrivibili, oggetti che l’insigne matematico Roger Penrose indica con l’attributo molto chiaro di “misteri”.   

Vi sono dei numeri il cui statuto ontologico è talmente chiaro che sembrano esistere davvero. 0 e 1 appartengono a questa categoria. Rappresentano il nulla e l’unità, il non essere contrapposto all'essere nella sua immagine essenziale e unitaria. Zero e uno sono anche il fondamento della descrizione digitale del mondo. Calcolatori, smartphone, computer, immagini e trasmissioni digitali: tutto ciò che viene descritto del mondo con l’ausilio degli strumenti digitali e dell’intelligenza artificiale è composto da stringhe costituite unicamente dai numeri 0 e 1. Questi due numeri che richiamano la distinzione parmenidea di due mondi contrapposti (l’esistenza e la non esistenza) nella loro estrema semplicità sembrano descrivere l’intero universo e se non fossero costituenti strutturali della natura, lo sono diventati, creati dalla mente umana. A livello simbolico queste due cifre rappresentano tutti gli opposti che la mente umana è in grado di immaginare: l’esistenza e la non esistenza, la destra e la sinistra, il maschio e la femmina, la luce e le tenebre, il giusto e l’ingiusto, il male e il bene: si va quindi dalla descrizione pura e semplice del mondo alla sua rappresentazione etica ed estetica.

Ma vi sono altri numeri il cui statuto ontologico è più complicato da comprendere. Uno di questi è il famosissimo Pi greco (p), la costante matematica che definisce il rapporto tra la circonferenza e il diametro del cerchio. Ma qui la situazione si fa ancora più complicata. Per prima cosa, infatti, il p  non può essere calcolato per intero (le cifre che lo compongono sono probabilmente infinite). Inoltre, anche quando si parla di “cerchio”, “diametro” e “circonferenza” si fa riferimento a forme ideali o idealizzate di oggetti naturali. 

Si è accennato ai numeri anche per la loro capacità di rappresentare contenuti estetici o di trasformarsi essi stessi in contenuti estetici. Personalmente amo particolarmente i numeri primi (1, 3, 5, 7, 13, 17 …) e credo che il loro fascino sia quello dell’indivisibilità, che fornisce loro una corazza insondabile. E che dire della Successione di Fibonacci, ove ogni cifra corrisponde alla somma delle due cifre precedenti? Non ha un che di seducente?

Successione di Fibonacci
E che dire della rappresentazione grafica di questa successione, che ricorda e descrive molte strutture presenti in natura. Non ha un che di meraviglioso?

 
Trasposizione grafica della Successione di Fibonacci e la spirale di una chiocciola

Ma i matematici, che vedono nei numeri molto più di noi esseri umani normali, trovano “il bello” in formule più complesse, dove numeri e lettere rappresentano costanti e funzioni. Per loro, le formule in assoluto più belle (nella loro essenzialità e nella loro potenza descrittiva) sono la formula di Einstein riguardante la relatività ristretta

E = mc²

e la cosiddetta Identità di Eulero

e+1=0

La mia mente fatica a vedere questa bellezza, ma mi devo fidare di chi sa leggere i numeri in maniera più profonda di me.

Non credo che i numeri esistano in natura e non credo, come affermava Galileo, che l’universo sia scritto in lingua matematica. Essi esistono però come simboli nel mondo delle idee. Nati come strumenti al servizio della praticità, sono presto diventati simboli di altre idee, metafore, categorie etiche ed estetiche, fino a diventare forme poetiche e artistiche.

giovedì 7 novembre 2019

ALEXANDER VON HUMBOLDT E IL CLIMA - METODO E PROFEZIA

Quando si naviga in rete, ai "mi piace", ai numeri delle "visualizzazioni", alla quantità di pagine web che trattano di questo o di quell'argomento, bisogna guardare con circospezione. Tuttavia, i numeri sono numeri e dietro alle cifre c'è sempre qualcosa, o qualcuno. 

Se si confronta il numero di pagine web in cui si parla di CLIMA col numero di pagine che riguardano altri argomenti si possono trarre indizi su ciò che alla gente (l'immenso popolo del web) interessa. Qui di seguito un esempio.



Milioni di pagine
CLIMA (ita)
455
CLIMATE (ing)
1280
GRETA THUNBERG
324
DONALD TRUMP
1050
LUIGI DI MAIO
10
SESSO (ita)
123
SEX (ing)
4810
 Termini della ricerca e pagine web corrispondenti (fonte Google)

In assenza di altri parametri, i numeri possono essere interpretati in mille modi e forniscono una rappresentazione gerarchica molto aleatoria dell’importanza relativa dei rispettivi temi. Ciò non toglie che l’elevato numero di pagine riguardanti il Clima (e l'analogo inglese Climate) indicano l’enorme interesse che questo tema sta riscuotendo. Il clima, d’altra parte, ci riguarda tutti e ci preoccupa.  

Il termine clima deriva dal greco κλίνω (klíma) che significa inclinazione. I greci si riferivano all'inclinazione dei raggi solari rispetto al suolo, un'inclinazione che aumentava progressivamente andando dalle regioni torride equatoriali a quelle dell'estremo nord. Secondo Aristotele, la possibilità della vita è direttamente correlata a questa inclinazione, divenendo impossibile dove questa è minima (deserti equatoriali) o massima (regioni ghiacciate del nord).
Nella geografia tolemaica (fino al medioevo e al primo rinascimento), il mondo veniva rappresentato come suddiviso in regioni climatiche chiamate climăta (dal greco klíma-atos) che significava, per l'appunto, “regioni”. Il clima aveva quindi una connotazione geografica correlata alle condizioni meteorologiche che oggi chiamiamo condizioni “climatiche”.

Macrobius: Mappa Mundi (sec. XII)
Oggi il termine clima ha perso le sue connotazioni territoriali e si riferisce a un complesso sistema di variabili misurabili tra loro interagenti (temperatura, venti, precipitazioni, soleggiamento, umidità, altitudine, ecc.) che, prese nel loro insieme, determinano e influenzano le condizioni di vita in un determinato territorio. Data la mutabilità delle variabili considerate, le condizioni climatiche “medie” riguardano periodi di tempo relativamente lunghi. Le variazioni climatiche vengono considerate “significative” quando i vari parametri (temperatura, precipitazioni, ecc.) di un periodo trentennale si discostano in modo rilevante e permanente dal periodo trentennale precedente. La nostra epoca è caratterizzata da un mutamento climatico significativo caratterizzato da un riscaldamento che coinvolge l’intero pianeta: è il riscaldamento globale.     

Fu solo nel Settecento che la parola “clima” è entrata nell’uso comune col significato che oggi le attribuiamo. Furono le tecnologie del XVIII secolo (termometri, igrometri, barometri, etc.) a rendere possibili, affidabili e riproducibili, le misurazioni delle variabili che, assieme, costituiscono il clima. Da allora si sono registrati tre picchi nella frequenza d’uso del termine. Uno a metà del Settecento, uno a metà dell’Ottocento e uno – che ci riguarda – nel quarantennio che va da 1980 ad oggi (vedi figura. Per l’originale vedi all’URL). I picchi del Settecento e dell’Ottocento sono direttamente collegati con l’espansione delle scienze che hanno cominciato a considerare il clima come oggetto di studio. Il picco odierno è dovuto alla diffusa preoccupazione sociale riguardante le variazioni climatiche che influenzano negativamente la vita sulla terra, ivi incluse le occupazioni umane.




Alexander von Humboldt (1769-1859), nato nell’anno in cui James Watt inventava la macchina a vapore e morto nell’anno in cui Charles Darwin pubblicava lOrigine delle specie, era considerato il più grande scienziato del suo tempo, l’ultimo degli scienziati enciclopedici, il cui interesse copriva l’intero arco delle scienze fisiche, chimiche, e naturali. Osservatore e misuratore di ogni cosa, si occupò anche di clima e fu un pioniere della climatologia.


Alexander von Humboldt, circa 1855
© Hulton Archive/​Getty Image
Egli trattava il clima come fattore determinante nelle dinamiche riguardanti la vita delle piante, degli animali e dell’uomo, ivi comprese le sue attività. Un vero pioniere dell’ecologia. Fu anche il primo ad avere una visione lungimirante dei cambiamenti climatici causati dall'uomo. Aveva osservato di persona gli effetti devastanti della deforestazione ad opera degli spagnoli nella regione del Lago Valencia, in Venezuela: la terra resa arida, la riduzione del livello delle acque dei laghi e dei fiumi, la scomparsa del sottobosco. Fu il primo a spiegare l’importanza delle foreste per la ritenzione idrica a tutela del terreno dall'erosione. In tempi non sospetti, annunciò che l’uomo stava interferendo sul clima e che tutto questo poteva avere un imprevedibile impatto sulle generazioni future. Le sue parole suonano oggi profetiche.

Qui di seguito un suo passo sulla complessità del clima, sulla metodologia che si richiede alla climatologia per farne una scienza, e sugli effetti del clima sull'uomo, sulle sue attività, sulle sue capacità.
Il passo è tratto da Kosmos (Il Cosmo). Una descrizione fisica del mondo, nella prima traduzione italiana a cura di Vincenzo degli Uberti (Stamperia del Vaglio, Napoli, 1850).

Il vocabolo Clima, preso nella sua significazione più larga, significa il complesso de’ cambiamenti e delle condizioni dell’atmosfera che visibilmente affettuano i nostri organi: la temperatura, l’umidità, la variazione della pressione barometrica, la quantità della tensione elettrica, la purezza dell’atmosfera e la sua mescolanza di esalazioni più o meno deleterie, ed infine il grado di ordinaria trasparenza dell’aria e di serenità del cielo, che ha una influenza importante non solo sullo svolgimento organico delle piante e del maturamento de’ frutti, ma sì ancora su’ sentimenti e sulle facoltà intellettuali dell’uomo (p. 425) …

Annoverando le cause che alzano o abbassano la temperatura, alle prime appartengono: la vicinanza di una costa; la configurazione sinuosa della costa con baie profonde o mari interni; il predominio dei venti; le catene dei monti che stanno a guisa di ripari protettori contro i venti; la rarità di pantani e paludi; la mancanza de’ boschi. Fra le cause raffreddatrici, l’elevazione sul livello del mare, la configurazione unita ed ammassata di un continente; la lontananza da zone tropicali riscaldate dai raggi del sole; le catene dei monti che impediscano l’accesso de’ venti caldi; le foreste che sono d’ostacolo al riscaldamento della terra; paludi che nel settentrione formano una specie di ghiacciaia sotterranea; un cielo chiaro e sereno d’inverno (p. 428-429) …

Bisogna osservare che i diversi ordini di cause disturbatrici vanno esaminati separatamente ma bisogna anche considerare la loro influenza unita e l’opera di ognuna nel modificare, distruggere, rafforzare le altre … E però pensomi che codesto sia lo spirito del metodo che possa un giorno impiegarsi per adunare coll’aiuto di leggi empiriche espresse numericamente, una vasta serie di fatti apparentemente senza senso e per manifestare la loro reciproca dipendenza (p. 429).

A latere e quasi a suggello dei suoi avvertimenti, va segnalato che a Merida (Venezuela), a causa del riscaldamento globale, il ghiacciaio che gli è intitolato è ormai praticamente scomparso: ciò che rimane è un miserevole rigagnolo.

La valle in cui si stendeva il ghiacciaio von Humboldt (Merida, Venezuela)



giovedì 24 ottobre 2019

NO, NON SONO UN ROBOT


Prima che Walt Disney le addolcisse rendendole caramellose, le fiabe avevano il compito di educare, ridurre all’obbedienza e ammaestrare i bimbi attraverso la paura. 

Ne sono una testimonianza le fiabe dei fratelli Grimm (pensiamo a un Pollicino abbandonato nel bosco dai genitori o ad Hänsel e Gretel consegnati alla strega del bosco affinché se li mangiasse) o quelle di Heinrich Hoffmann, con Pierino Porcospino e, peggio ancora, La tristissima storia degli zolfanelli, nella quale la disubbidente Paoletta muore nell’incendio da lei stessa provocato giocando con i proibitissimi fiammiferi e di lei rimangono solo le scarpette e un mucchietto di cenere.

Frontespizio di Pierino Porcospino
Forse con l’intento di ammaestrarmi, a metà degli anni '50 (avevo sei-sette anni), i miei genitori mi portarono a veder un film intitolato L’invasione degli Ultracorpi (di Don Siegel). Vi si narrava di persone che durante il sonno venivano rimpiazzate da replicanti, copie identiche alle persone di cui prendevano il posto. I replicanti maturavano in enormi, orrendi baccelli schiumosi. Per questa fiaba nessun lieto fine: il film lasciava intendere che i pochi che si rendevano conto delle sostituzioni e si opponevano all'invasione sarebbero stati rapidamente sopraffatti dalla legione dei nuovi umanoidi (non pochi lessero nei replicanti la metafora del pericolo comunista, dove le persone finiscono con diventare non persone). Il pianeta sarebbe stato invaso da esseri che, sostituendosi a noi, avrebbero preso in mano le redini del mondo e, quel che è peggio, pur accorgendosi che qualcosa di strano stava accadendo, l’umanità sembrava trascurare il pericolo, quasi un deliberato non voler vedereCome tutti i bimbi, non ero in grado di distinguere una "fiaba" dal "reale: rimasi sconvolto, e quell’impressione di terrore riemerge ancora adesso mentre ne riparlo a sessant’anni di distanza.

L'invasione degli ultracorpi: un replicante emerge dal baccello schiumoso 
Più in là negli anni, era il 1988, vidi al cinema un’altra favola: Essi vivono (di John Carpenter). In questa fiaba i replicanti (una sorta di robot umanoidi) assumono una forma perfettamente umana ma il loro vero e terrificante aspetto è reso visibile da uno speciale tipo di occhiali da sole. Anche in questo caso sono ben pochi gli umani che vogliono davvero vedere e cercano di resistere all’invasione. La gran massa degli altri si disinteressa del problema, lascia correre, come se la cosa proprio non li riguardasse. I pochi eroi che resistono all’invasione verranno tutti sopraffatti. Ormai adulto, non mi spaventai come da bambino, ma l’idea che la gran parte della gente preferisca non vedere il pericolo quando questo assume forme suadenti mi è rimasta nella mente come un piccolo tarlo.

Essi vivono: un invasore in panni umani come appare visto con gli speciali occhiali
Queste sono tutte fiabe, si dirà: è un genere di cassetta, la fantascienza. Consoliamoci pure così.
Peccato che, fantascienza a parte, ci siano già tra noi milioni e milioni di robottini invisibili, i bots, che traggono il rassicurante nomignolo dalla parola ROBOT, termine usato per la prima volta nel 1920 dal commediografo ceco Karel Čapek. I bots sono piccole strisce di informazioni: piccoli simpatici e utilissimi mostri creati dalle tecnologie informatiche. Sono semplici algoritmi capaci di svolgere compiti semplici: possono rilevare e correggere errori sintattici, valutare la corrispondenza degli indirizzi URL (htpp://…) con gli oggetti cui fanno riferimento, e altre cose del genere. Ma poiché possono essere legati a strumenti di intelligenza artificiale, possono anche riconoscere elementi o frasi sulla cui base aggiungere un “like” sui social network, possono inviare commenti più o meno standardizzati in risposta a notizie o a nomi che trovano in rete, possono assumere i connotati di “account” e, quindi di persone. È a questo punto che, incontrando dei bots sulla nostra strada, sul nostro computer, sul nostro smartphone, non sapremmo più dire se abbiamo a che fare con un “chi” o con un “che cosa”. Questo, di per sé, è inquietante, così come è inquietante quando, per esempio, comperando un biglietto ferroviario online ti viene posta la domanda: «Sei un Robot?», e devi immediatamente dimostrare, trascrivendo un codice alfanumerico deformato, che … «NO, non sono un robot: io, no, ma tu sì, accidenti!».

Milioni e milioni di questi robottini-account hanno interferito con l’opinione politica degli americani (e che lo fanno tuttora con quella degli italiani) tanto che Facebook ha dovuto recentemente rimuovere due miliardi (sì, 2.190.000.000) di falsi bot-account (vedi al LINK). Questo è e rimane inquietante, anzi inquietantissimo.

Facebook ha dovuto rimuovere due miliardi di falsi profili
Alla voce Bot (informatica) (vedi al LINK), Wikipedia spiega tutto quello che c’è da sapere su questi algoritmi, ma la cosa più inquietante è che, se si va a cliccare sulla voce “cronologia” della pagina di Wikipedia, ci si accorge che alcuni degli account che hanno contribuito alla voce Bot, sono essi stessi dei bots, e ciò avviene per un grandissimo numero di pagine di Wikipedia o di altre pagine di pubblica costruzione. Una volta si sarebbe parlato di autoreferenzialità, circolarità, tautologia: concetti forse superati dai tempi. Tutto ciò è inquietante.

In conclusione, pur ammettendo che questi strumenti sono utilissimi perché in grado di effettuare senza errori e in tempo reale operazioni che sarebbero lunghe e noiose per qualunque operatore umano, questa invisibile invasione dovrebbe risvegliare le coscienze ad alzare il livello di guardia sul loro uso, visto e considerato che il loro utilizzo è già stato in grado di manipolare su larga scala attenzione, opinioni, tendenze, orientamenti, preferenze, sentimenti. Tuttavia, così come nelle fantasiose storie narrate in L’invasione degli ultracorpi ed Essi vivono, pare che i più preferiscano rimanere nello stato della beata incoscienza. Se questa fosse una fiaba (e purtroppo non lo è), dovrebbe fare paura per ammaestrare, educare, rendere consapevoli, ma ai più questa favola sembra non fare alcuna paura. Dove porterà tutto ciò? La prospettiva distopica è l’unica che mi viene in mente.

POSTSCRIPTUM: 

a proposito, 



giovedì 3 ottobre 2019

Greta Thunberg e gli scienziati – Questione di linguaggio


Nel rapporto tra scienza e società, non c’è oggi argomento più caldo di quello che riguarda il clima. In questo delicato rapporto, nel quale la politica e l’economia giocano un ruolo determinante, è entrato il fenomeno Greta Thunberg a sparigliare completamente le carte.


Greta Thunberg
Non intendo affrontare il tema dei denigratori per professione o per diletto: non è un tema, questo, per persone serie. E comunque, a scanso di equivoci, affermo di stare dalla parte di Greta, non foss’altro per l’ondata a livello globale che il suo intervento (ovviamente supportato da chi ha interessi anche economici nella soluzione dei temi climatici) è riuscita a sollevare tra i giovani i quali manifestano l’intenzione di appropriarsi del proprio domani.

Milano, 27 settembre 2019 - manifestazione per il clima

Quello che mi interessa è mettere in luce la questione del linguaggio. Tra le decine di migliaia di commenti che intasano giornali e social media mi sono soffermato pochi giorni fa sull'intervento di 
Roberto Battiston, (fisico ed ex Presidente dell'Agenzia Spaziale Italiana) pubblicato da Huffington Post intitolato "Perché io, scienziato, credo che Greta abbia ragione". Battiston afferma che Greta è nel giusto in quanto per risolvere il problema la ragazza svedese si affida alla scienza affermando non ascoltate me, ascoltate la scienza (vai al LINK). Un'affermazione singolarmente simile viene da parte di alcuni denigratori di Greta: Che ce ne facciamo delle parole di una ragazzina dato che gli scienziati parlano del rischio climatico da cinquant’anni!”. Il Prof. Battiston fa seguire alle proprie affermazioni un articolo esaustivo e scientificamente ineccepibile che, non ostante le lodevoli intenzioni divulgative, immagino sia risultato poco comprensibile per una enorme fetta della popolazione italiana. Non c’è da stupirsi. La scienza è difficile non solo da fare ma anche da spiegare. Gli scienziati, eccellenze comprese, faticano a rendersi conto di quanto il loro linguaggio spaventi e allontani la gente. É difficilissimo tradurre in parole semplici argomenti complessi ma per farsi capire da tutti è necessario sacrificare i dettagli e semplificare il linguaggio. 
Greta utilizza messaggi brevi e diretti, che giungono allo stomaco prima di risalire al cervello. Per lo più, gli scienziati parlano al cervello ma molti dei loro messaggi finiscono col perdersi prima di arrivare al cuore e allo stomaco di chi li legge. I messaggi di Greta, al contrario, hanno la purezza quasi ingenua delle accuse che da sempre gli adolescenti gettano in faccia agli adulti. C’è chi ha scritto che il suo linguaggio è populista. Questa, che sembra una accusa, contiene un seme di verità se si vuole dare al termine populista la connotazione di un messaggio semplice e immediato che veicola significati che giungono senza mediazioni alle persone comuni e le coinvolgono profondamente. Sappiamo bene come, in politica, i messaggi populisti siano straordinariamente efficaci, coinvolgenti e molto spesso pericolosi. Per una volta che un linguaggio “populista” veicola messaggi utili e alti, sarebbe forse il caso di considerarli con maggiore benevolenza.

Greta non è “la soluzione. L'adolescente svedese è diventata l’icona di un risveglio che non poteva attendere oltre. Non si può pretendere che Greta sia diventata un’icona solo con la farina del suo sacco. Certamente ci sono investitori, capitali, politici ed esperti di marketing dietro all'icona (pochi che l’hanno sostenuta fin dall'inizio e i soliti molti che si sono accodati dopo che ha avuto successo). D’altra parte, non solo gli hamburger più tossici, ma anche le merendine più sane hanno bisogno di marketing, packaging, e pubblicità. Da sempre, per diffondersi, le idee hanno avuto bisogno del sostegno di icone, di simboli, di bandiere, il cui minimo comun denominatore è la semplicità e l'immediatezza del linguaggio. La difesa del pianeta non ha forse bisogno dello stesso sostegno? Un linguaggio alla portata di tutti, come quello di Greta, è di fondamentale importanza per creare il dovuto sostegno, aprendo la strada a chi (scienziati, politici, imprenditori, e noi stessi con i nostri comportamenti individuali) potrà mettere in atto le giuste soluzioni.  

Politici che discutono di riscaldamento globale - Installazione, Berlino 2019



sabato 7 settembre 2019

ADDENDUM SUI ROBOT (robot da intrattenimento)


Di seguito al post intitolato LA PRIMA VOLTA DEL ROBONAUTA segnalo un altro interessante evento che riguarda l’avanzata dei robot, un’avanzata che questa volta vede gli umani come partner interessati ed attivi, molto attivi.

Si tratta di un convegno, interessante quanto inquietante, svoltosi nei primi giorni di luglio a Bruxelles. Per lo scienziato o per l’informatico il tema può certo risultare interessante, l’aspetto inquietante riguarda la componente umana, i clienti che costituiranno il “mercato” delle innovazioni tecnologiche discusse nel corso del convegno. 

Rivisitazione robotica di: La creazione di Adamo (Michelangelo)
Dimenticavo: il titolo del convegno è il seguente:

4° INTERNATIONAL CONGRESS ON LOVE AND SEX WITH ROBOTS
(4° congresso internazionale sull’amore e sul sesso coi robot)

Gli argomenti in discussione sono i seguenti: 

le emozioni dei robot; robot umanoidi; cloni robot; robot da intrattenimento; personalità robotica; teledildonica (tecnologia per il sesso a distanza e le interfacce che rendono possibile la “condivisione” delle esperienze tattili); componenti per il sesso elettronico intelligente; approcci di genere; approcci affettivi; approcci psicologici; approcci sociologici; roboetica; approcci filosofici.

Per il momento mi astengo da ogni commento, ritenendo che gli argomenti in discussione rappresentino un motivo sufficiente di approfondita riflessione per gli affezionati lettori.

Al momento non sono ancora disponibili i testi delle relazioni ma questi verranno prossimamente pubblicati su due riviste specializzate in robotica, ciascuna delle quali pubblicherà un numero speciale dedicato al convegno medesimo,
Paladin, the Journal of Behavioral Robotics (LINK) e Journal of Multimodal Technologies and Interaction (LINK)  cui si rimanda.

Locandina di Paladin, Journal of Behavioral Robotics

Commenti su questa interessante evoluzione della robotica saranno i benvenuti.
L'icona del congresso di Bruxelles


domenica 1 settembre 2019

LA PRIMA VOLTA DI UN ROBONAUTA - KOSMONAUT FEDOR


Pochi giorni fa si è aperta ufficialmente una nuova era nelle imprese spaziali: quella della coabitazione fisica tra esseri umani e robonauti. Il 27 agosto, alla 1.08 ora italiana, ha infatti messo piede nella stazione orbitante internazionale il primo robonauta umanoide: il suo nome FEDOR.

Solo pochi giorni fa si è spenta l’eco della celebrazione di un altro inizio d’epoca, il cinquantenario dello sbarco sulla luna di un uomo (anzi due) in carne e ossa. A cinquant’anni di distanza da quel momento epocale, ne viviamo un altro di non minore importanza, cui la stampa, però, distratta da disastri naturali e da crisi morali e politiche un po' ovunque, dà poca enfasi.


Il robonauta FEDOR (con un fratellino sullo sfondo)
Tanto per cominciare, in russo FEDOR è un nome maschile e questo, a voler leggere tra le righe, potrebbe voler dire qualcosa. A scusante del signor Dmitry Rogozin, l’uomo politico a capo dell’Agenzia Spaziale Russa che ha scelto il nome, va detto che FEDOR è l’acronimo di "final experimental demonstration object research", che potrebbe essere tradotto come dimostrazione sperimentale finale sulla ricerca dei manufatti”. Questa dicitura è talmente assurda (alle mie orecchie suona comeguardate di che cosa siamo capaci noi Russi) da far ritenere che il nome FEDOR sia stato dato per primo e che poi, in un secondo tempo, si sia cercato di costruirgli sopra una dicitura che paresse avere un qualche senso. Va rimarcato, tra l’altro, che il termine “final” (finale) non ha cittadinanza nel vocabolario scientifico, mentre ha invece una forte (e angosciosa) connotazione politica. Tralasciamo però le piccolezze semantiche della natura umana e veniamo alla questione epocale.
La gara spaziale e tecnologica fra le grandi potenze ha sempre avuto come meta quella di mandare un uomo da qualche parte. Il vero successo, per la Russia, non era stata la cagnetta Laika, ma il cosmonauta Jurij Gagarin (a volere dirla tutta un grande successo politico fu per la Russia mandare in orbita – facendola tornare – la prima cosmonauta femmina, Valentina Tereškova). E il grande successo degli americani furono i primi passi sulla luna di Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Poi si cominciò a parlare di mandare i primi uomini su Marte. Tuttavia, ora che i cinesi hanno inviato una sonda a lavorare per proprio conto sulla faccia nascosta della luna e che anche gli indiani hanno inviato la loro macchinetta a scavare buche sulla luna, è diventato molto più interessante dare dimostrazione di potere tecnologico inviando robot: e qui la Russia ha fatto il primo punto nella nuova partita.
È pur vero che FEDOR non è granché autonomo in quanto si limita quasi esclusivamente a replicare in remoto i movimenti di un operatore umano terrestre, ma bisogna considerare che questo è soltanto il primo passo, poiché FEDOR è il primo esemplare prodotto da una piattaforma che dovrà mettere in opera robot sempre più autosufficienti e in grado di operare scelte. Nell'immagine di apertura si vede sullo sfondo che FEDOR ha già dei fratellini.

La questione epocale si gioca sulla robotica, sull’intelligenza artificiale e su tutti i vantaggi che i robot hanno sull'uomo: lavorano H24, non si stancano, consumano relativamente poca energia, non respirano, non inquinano e non emettono escrementi, ecc, ecc.
Mi metto nei panni degli astronauti Luca Parmitano, Andrew Morgan e Alexander Skvortsov che hanno accolto FEDOR nella stazione orbitale. Si saranno sentiti come le cassiere dei supermercati (specie in via d’estinzione) quando hanno visto comparire nel loro supermercato la prima cassa automatica?

Casse automatiche in un supermercato
O come un operaio dell’Alfa (specie praticamente estinta) quando i primi robot sono comparsi sulle linee di montaggio? Mi aspetterei che una qualche sensazione del genere sia fugacemente passata nella loro mente.

Robot su una linea di montaggio auto
Prima o poi, gli astronauti umani dovranno essere dotati di un supporto psicologico a distanza. Come si fa a lavorare, a fare esperimenti, a far di conto quando vicino a te c’è un umanoide che non dorme, non mangia, fa la passeggiata nello spazio senza tuta e respiratore e ti surclassa in ogni cosa tu faccia? Nello spazio, il lavoro umano è a una svolta.
C’è una speranza, però, in questa svolta epocale. Quando FEDOR e i suoi fratelli dotati di acutissimi occhi elettronici e di intelligenza artificiale volgeranno lo sguardo al pianeta Terra, rendendosi conto dello scempio che avviene là sotto, potranno dire agli umani: «Vediamo ridursi le calotte polari. Vediamo le foreste bruciare. Vediamo scomparire gli atolli. Il pianeta va di male in peggio. Se non vi decidete subito a fare qualcosa, dovremmo occuparcene NOI, e non è detto che questa per voi sia una gran buona notizia».

sabato 17 agosto 2019

IL RAZZISMO (E IL SESSISMO) INNOCENTE DEGLI ALGORITMI


Molte delle nostre attività quotidiane beneficiano del lavoro invisibile degli algoritmi. Sono loro che cercano per noi le immagini che chiediamo a Google o a Instagram. Sono loro che cercano per noi (o ci propongono “spontaneamente”) la nostra musica preferita su YouTube. Sono loro che selezionano per noi i contenuti di Facebook. 

Sono loro l’anima dei navigatori che ci conducono quasi per mano nei luoghi ove vogliamo andare. Sono loro che ci propongono le pagine web quando eseguiamo una qualunque ricerca. Invisibili ma concreti, danno forma al nostro modo di vivere.

L'algoritmo invisibile
Un algoritmo, dicono gli informatici, è la soluzione che i medesimi informatici offrono ai nostri problemi. Si tratta sostanzialmente di formule matematiche (istruzioni) che, attraverso un numero finito di passaggi, forniscono risultati utili e risposte immediate ai problemi che chiediamo loro di risolvere. Diciamo le cose come stanno: gli algoritmi sono una fantastica invenzione e ci facilitano la vita.   

Là dove gli algoritmi più semplici non risolvono adeguatamente i nostri problemi (per esempio in situazioni caratterizzate da una mole di dati troppo grande e dinamica per essere gestita in modo semplice e rigido), attraverso sistemi di intelligenza artificiale gli algoritmi vengono resi capaci di modificare se stessi e di diventare più efficenti, imparando direttamente dai dati che elaborano o dalle scelte effettuate in precedenza dagli utenti. Questa abilità prende il nome di apprendimento automatico. Questi algoritmi intelligenti sono utilizzati dai motori di ricerca, dai sistemi di filtraggio antispam della posta elettronica, dai sistemi di riconoscimento facciale, e via di seguito.

Apprendimento automatico
Detto tutto il bene possibile degli algoritmi e della loro capacità di adattarsi, previo apprendimento, alle necessità dell’utente, va anche detto che nella loro capacità adattativa si nasconde un lato oscuro, molto oscuro, dietro al quale si nasconde ahimè il lato oscuro dell’umanità.

Prendiamo, per esempio, il razzismo.
È stato notato che i motori di ricerca, a fronte di determinate richieste da parte dell’utente, possono proporre risposte, pagine, immagini il cui contenuto suona (o può essere interpretato come) razzista. La domanda che ci si pone è se gli algoritmi possano essere razzisti, ovvero se le informazioni e le formule che costituiscono la loro “mente” siano improntate al razzismo. Pur non potendosi escludere in alcuni casi che ciò avvenga in modo pianificato, gli algoritmi NON sono razzisti in sé ma lo diventano nel momento in cui rispecchiano i pregiudizi umani dei programmatori e, soprattutto, i dati presenti nella rete che gli algoritmi elaborano. Detto ciò a proposito del razzismo, questo è altrettanto vero per il sessismo, il maschilismo e altre amenità del genere che animano i pregiudizi umani e che abbondano tra i contenuti della rete. Il peccato e il difetto stanno quindi nella componente umana, e non nel povero e del tutto inconsapevole algoritmo

Prendiamo il caso di un algoritmo dedicato alla selezione del personale per un impiego. Nelle grandi compagnie e anche nelle grandi agenzie di collocamento non vi è più nessuno che legge il curriculum del candidato. Lo fanno le macchine, gli algoritmi. Attraverso semplici formule che elaborano dati e parole chiave, gli algoritmi fanno la “scrematura”, ovvero selezionano i pochi che, se il caso, verranno esaminati dagli addetti umani alla selezione del personale, i veri e propri recruiter, per i quali l’elemento umano può ancora avere valore. Chi si affida a questi sistemi ne parla bene in termini di efficienza, velocità, costi (vai alLINK).  

Si è dimostrato che là dove i sentimenti razzisti o maschilisti sono ampiamente rappresentati nella popolazione generale (i dati sono prevalentemente riferiti agli Stati Uniti ma ogni paese ha i propri problemi specifici) gli algoritmi dedicati alla selezione del personale tendono a selezionare preferibilmente maschi bianchi, anche là dove il sesso, il colore della pelle o la provenienza etnica non dovrebbero in alcun caso rappresentare un motivo di preferenza. L’algoritmo, quindi, in quanto solutore di un problema, si porta evidentemente dietro, all’interno dei suoi diagrammi di flusso e delle sue formulette, pregiudizi umani non facilmente eradicabili.  

Un algoritmo può essere razzista?
Negli Stati Uniti (in Italia non ancora) per valutare la pericolosità di un criminale e comminare pene restrittive in carcere piuttosto che agli arresti domiciliari, il sistema giudiziario si serve di algoritmi che valutano la pericolosità e il rischio di recidiva: inutile dire che la restrizione della libertà viene comminata ai neri molto più che ai bianchi. Può essere che l’algoritmo svolga alla perfezione il proprio compito o, per lo meno, non in modo molto diverso da quanto farebbe un giudice umano di carnagione chiara, ma può anche essere che l’algoritmo si porti dietro i pregiudizi di chi ne ha compilato le istruzioni e quelli di chi ha redatto i "precedenti" del criminale.
Il pregiudizio che l’algoritmo “eredita” dal programmatore può essere corretto rivedendo le informazioni programmate. Il problema è molto più complicato quando si ha a che fare con algoritmi dotati di autoapprendimento: questi infatti “assorbono” i pregiudizi dalla montagna di dati che analizzano e che rappresentano i pregiudizi striscianti presenti nella popolazione e nei dati di riferimento da cui essi apprendono.

E che dire del maschilismo?
Mafalda e il maschilismo
In questo caso non si tratta "solo" di pregiudizi: a generare distorsioni possono contribuire anche altri elementi. Uno piuttosto infido può essere legato alla lingua.  Per esempio, se i dati di riferimento cui l'agoritmo accede per le proprie analisi sono scritti in una lingua in cui la parola “ingegnere” (o programmatore) è un sostantivo di genere maschile, l’algoritmo potrà associare più facilmente “ingegnere” (o programmatore) a “maschio” che non a “femmina” e nel caso della selezione del personale l’algoritmo potrebbe selezionare in maggioranza maschi che non femmine. Di per sé questo determina disequilibri, distorsioni, iniquità: pensiamo per esempio al fatto che la professione “infermiere” (sostantivo maschile usato di regola nei formulari per la ricerca del personale) è esercitato in Italia più dalle femmine che non dai maschi. 

A tutto si può porre rimedio. È chiaro però che il problema va prima percepito (cosa che sembra di là da venire), poi analizzato nella sua complessità e quindi affrontato in tutte le sue sfaccettature, da quelle sociologiche, a quelle psicologiche, a quelle linguistiche, a quelle di programmazione informatica, a quelle del monitoraggio dei risultati. La vedo dura.