CHI HA PAURA DELLA SCIENZA?
Chi non la capisce. Chi si rifiuta o ha paura di capirla o chi, faticando a comprenderla, semplicemente la allontana da sé con sospetto. Eppure, tutto ciò che ci rende la vita più lunga e sicura rispetto a secoli fa, più confortevole e meno gravosa, viene proprio di là: dalla scienza e dalla tecnologia, sua stretta parente. A giustificazione di chi ha paura della scienza, non si può e non si deve negare che essa può anche generare incubi: ma di chi è la colpa? Della scienza in quanto tale, o di eventuali scriteriati utilizzi?
È una paura antica, quella che taluno ha nei confronti della scienza,
molto antica. Credo di non sbagliare affermando che essa è nata con la scienza
stessa. Una paura nata assieme a Prometeo: col timore della punizione per un
atto di intollerabile superbia, quello di rubare agli Dei il fuoco e la
conoscenza. E come non pensare anche ad Adamo e a Eva e all'irrefrenabile desiderio di conoscenza che sarà all'origine di tanti guai! Meglio lasciarla perdere, dunque, la conoscenza e anche la scienza, il cui scopo è conoscere.
In ogni tempo, c'è stato chi ha associato la conoscenza all'idea del Demonio, a Mefisto: in molti roghi sono stati bruciati alambicchi, libri, elisir, maghi, streghe e anche gatti. Sempre la stessa paura. Quel che è curioso, oggi, è osservare questa stessa paura viaggiare alla velocità della luce, associata all'idea di complotti e cospirazioni, lanciata sulle ali veloci della fibra ottica, attraverso smartphone d’ultima generazione, come se chi teme maggiormente la scienza fosse proprio colui il quale maggiormente se ne serve.
Ad ulteriore giustificazione di chi teme la scienza, bisogna ammettere che – con le dovute eccezioni – gran parte degli scienziati non sa, o non vuole perché questo costa molta fatica, comunicare il senso stesso della scienza. Accade così che in assenza di spiegazioni chiare sul senso e sul rigore della scienza, anche in un'epoca in cui tutti comunicano con tutti (o forse proprio per questo), la platea dei dubbiosi e dei sospettosi si allarga anziché assottigliarsi. E ciò è male.
Sono molte le ragioni per le
quali si ha paura della scienza. Sono ragioni profonde, radicate nel fondo
della psicologia umana, là dove tutte le paure covano. Ma prima di cercare in
quegli anfratti della psicologia, va detta una cosa di una banalità sconcertante
che fa da volano moltiplicativo a tutte le paure più profonde. Chi proclama
verità, chi proclama di possedere la Verità, chi si arroga il diritto di
accesso alla Verità attira inevitabilmente su di sé antipatia e odio. Non può
essere altrimenti. È per questo che molti santi sono martiri, come fu lo stesso
Gesù. Non si proclama impunemente la Verità.
Tralasciamo le Inquisizioni, i Savonarola, i Cromwell, i Puritani e tutti gli altri nemici
ideologici della scienza, compresi ignoranti e retrogradi di professione. Diamo
uno sguardo a ciò che cova laggiù, dove albergano le umane paure. Non si tratta
di lanciare crociate contro gli infedeli e gli analfabeti scientifici: ogni
guerra di religione – fede contro fede – è del tutto infruttuosa: si tratta, se
mai, di capirne i motivi vicini e lontani.
Qui di seguito esporrò alcuni di
quelli che ritengo i motivi più importanti. Li esporrò alla rinfusa perché, tra
questi, non vedo un ordine gerarchico in quanto la paura è una questione individuale, che nasce
dalle esperienze e dalla cultura di ciascuno.
Un timore nasce, paradossalmente, dalla stessa natura della scienza: quella di essere un “sistema
aperto”. Il fatto che essa, per definizione, metta in discussione
ogni propria proposizione, ogni nuova conoscenza, ogni nuova verità, lascia –
soprattutto in chi la conosce poco e male – non solo ampi margini di dubbio
sulle pretese “verità scientifiche”, ma una vera e propria giustificazione al
dubbio. E quando il dubbio diviene sistematico (come giustamente è nella scienza
più pura), questo genera a sua volta nell’interlocutore poco esperto un timore parimenti sistematico. Nel proprio
intimo, l’uomo è insicuro e ha bisogno di certezze: se non fosse così, come si
giustificherebbe l’adesione di gran parte dell’umanità a fedi poggiate su dogmi
che possono fare a meno della ragione? A fronte di un bisogno così forte di
certezze, la scienza, con le sue verità mai complete e con gli inevitabili
limiti della ragione, non è in grado di offrire saldi appigli, a meno di non trasformarsi
essa stessa in apparato fideistico, cosa che è contraria alla sua ragion d’essere.
Una Verità variabile è una
verità dimezzata, il frutto di un relativismo che, se pur accettabile dalla
ragione, lascia insoddisfatto il cuore, o lo stomaco, di chi ha bisogno di
certezze.
Un altro motivo di messa in crisi
della fiducia nella scienza è da ricercarsi in quella che è stata chiamata,
metaforicamente, la perduta alleanza tra Dioniso
e Apollo. Negli anni venti del secolo scorso, Oswald Spengler, nella sua monumentale opera ideologica Il
tramonto dell’Occidente, si richiamava esplicitamente alla crisi tra la
visione dionisiaca e quella apollinea della vita tratteggiata da Friedrich Nietzsche in La Nascita della Tragedia. Apollo è razionale, misurato,
equilibrato. È la parte razionale dell’uomo: è l’arte, lo schema, la filosofia,
la scienza. Dioniso è la parte animale, selvatica, viscerale, dalle pulsioni e dal sentire irrefrenabile e indomabile. Egli è il cuore, lo stomaco, ma
anche la musica, l’ebbrezza, l’entusiasmo. Prima di Nietzsche, anche Goethe aveva contrapposto due interpretazioni
metaforiche del mondo: quella del meccanismo
e quella dell’organismo. Il mito
vorrebbe che all’origine del mondo Apollo e Dioniso fossero alleati e che l’uomo
godesse dei frutti di tale alleanza. Quando tale alleanza cessò lo spirito dell’uomo
ne risultò dilaniato, senza essere capace di trovare un equilibrio tra ragione
e sentimento, tra cervello e cuore (o stomaco). Per Spengler, la crisi dell’Occidente sta nell’aver dato maggior credito
alla ragione. Personalmente, io ribalterei la visione di Spengler e attribuirei lo smarrimento contemporaneo a un ritorno in
grande spolvero dello stomaco nei confronti del cervello
o, per usare i concetti di Goethe,
del destino
nei confronti della causalità. A me sembra che queste divisioni del mondo e delle
sue interpretazioni non siano “vecchiume filosofico”, ma
appartengano costitutivamente all’uomo, fungendo da poli alternati di uno dei
motori della civilizzazione, e come tali influenzando profondamente il modo di
pensare anche dell’uomo contemporaneo. Chi teme la scienza e non è molto
convinto delle sue verità parziali, lo fa anche perché la ragione non infiamma
a sufficienza la sua anima dionisiaca. Questo è uno dei motivi per cui, in
molte sfide, invece di risultare vincente a mani basse come sarebbe lecito
aspettarsi, la scienza viaggia assai spesso ai margini della sconfitta latente.
In una società che da più parti
manifesta delusione e scontento, Dioniso
sembra avere maggior potere attrattivo rispetto ad Apollo. Quasi che il sentimento e il cuore sentano il richiamo di
una perduta quanto inesistente Età dell’Oro,
data dalla certezza del Destino contro l’incertezza di un sapere relativo. Si
assiste, a quanto pare, a una rinascita della forza attrattiva dell’antimodernismo.
Apollo e Dioniso: la ragione e il cuore |
Qui si dovrebbe aprire una
piccola parentesi. Paura della scienza o
paura degli scienziati? È come domandarsi se fanno paura le automobili, gli
automobilisti indisciplinati, o gli ubriachi al volante? Se per scienza si
intende l’insieme delle procedure e delle persone che studiano i meccanismi che
sottostanno a ciò che della Natura abbiamo nozione, non credo che la scienza
debba o possa far paura: e nemmeno se per scienza si intendono le nozioni ricavate
dallo studio e i risultati pratici che sono stati resi possibili dalle nozioni medesime.
Se per scienza intendiamo gli scienziati, allora è lecito – come accade talora
con l’uomo – temere usi discutibili del sapere e del potere ad esso connesso.
In tal caso, però, generalizzare è sbagliato: bisogna sorvegliare e giudicare
i singoli casi. Tra l’altro, un dubbio e un sospetto generalizzato non fa che
indebolire gli “anticorpi sani” propri della scienza, vale a dire quei meccanismi
di verifica e di controllo che la scienza stessa è abituata a mettere in atto
contro i cialtroni e i troppo scriteriati. Dubitare troppo della scienza diminuisce
il potere di autocontrollo. Questo è un male.
Il sospetto nei confronti della
scienza non può che farsi più forte quanto lo scienziato, sentendosi sospettato
e tante volte non essendo in grado di spigare la scienza in parole povere (e,
in effetti, la scienza è davvero difficile da spiegare a chi non ne conosce i
modi e il linguaggio), finisce per arroccarsi altezzosamente in quelle classiche
“torri d’avorio” che offendono, suscitano odio e insospettiscono ancora di più.
Chi guarda alla scienza con sospetto, e la teme, la accusa anche, non sempre a
torto, di autoreferenzialità.
Ma chi, e come, e secondo quali
parametri può giudicare la scienza? Ci sono due metri, separati e
distinti, per giudicarne meriti e demeriti. Il primo, a
disposizione di tutti, è giudicarne i
risultati attraverso i vantaggi che ciascuno ne trae, direttamente o
indirettamente. I vantaggi pratici conseguenti alle conoscenze scientifiche
sono sotto gli occhi di tutti: se è vero che in linea teorica si può dubitare
di tutto, non è molto onesto denigrare i vantaggi di cui si gode personalmente.
Il secondo metro è riservato agli agenti chiamati in causa, gli scienziati
stessi. Chi meglio di loro – esperti
dei metodi, dei modi, dei processi, degli assiomi, delle procedure, dei limiti,
e del linguaggio – può entrare nel
merito e farsi giudice? È qui che entra, certamente, una certa autoreferenzialità. D’altra parte, sono
proprio gli specialisti – l’agricoltore, il falegname, il meccanico, lo
storico, il fisico, il pittore, e via di questo passo – a possedere il know-how e gli strumenti specifici per
giudicare dell’operato dei propri simili. Tutti gli altri debbono
accontentarsi di valutare i risultati. Certamente, qui c’è autoreferenzialità (e
non può essere altrimenti). Chi è autoreferenziale, tuttavia, deve imparare a gestire egli
stesso in modo equo e limpido i limiti alla propria autoreferenzialità usando, nei limiti
del possibile, linguaggio e argomenti accessibili ai più. E qui entra in gioco la
difficile questione della democraticità.
Una dichiarazione che ha
suscitato dubbi, perplessità e, in taluno, indignazione, è stata l’affermazione
da parte del medico Roberto Burioni
il quale ha infranto un usurato tabù affermando che “la scienza non può essere democratica”. L’affermazione ha suscitato
clamore soprattutto, credo, per i modi decisi con cui è stata posta: quanto alla
sua essenza, invece, il clamore mi sembra ingiustificato. Se l’idraulico mi
dice che il mio rubinetto è da cambiare, posso riunire la famiglia e decidere,
a maggioranza, che il rubinetto non sia da cambiare ma, forse, l’opinione dell’idraulico - se onesto, ed eventualmente avvalorata da quella di altri idraulici di riconosciuta onestà - è più giusta di quella di tutta la mia famiglia messa insieme. Nella scienza
funziona così. Le conoscenze acquisite (sempre migliorabili e, in quanto conoscenze, neutrali) si prendono per
buone, fungono da punto di partenza per ulteriori ragionamenti, e ha poco senso - pur nel rispetto della libertà d'opinione - che vengano negate o contestate da chi non conosce in modo
approfondito il tema specifico. Se mai, il processo democratico entra in gioco in seconda battuta, quando
sulla base dei migliori dati possibili messi a disposizione degli specialisti,
vengono assunte decisioni politiche di
rilevanza sociale: è questo il campo in cui la democrazia esercita le proprie
prerogative. In questa fase, il processo democratico dovrebbe e potrebbe
avvalersi grandemente di una maggiore competenza
e consapevolezza dei meccanismi sottesi alla scienza. Una scelta democratica
e politica esercitata in condizioni di analfabetismo scientifico potrebbe avere
conseguenze gravi. Una società democratica più competente e consapevole
richiederebbe un’ampia revisione della formazione scolastica che non trascuri – ancora
sull’onda di un'impostazione risalente a Benedetto Croce – la competenza d’ordine scientifico. Bisogna che l’educazione
– nella scuola ma non solo – recuperi quel che c'è di essenziale nell'antica alleanza tra Apollo e Dioniso. Le due anime dell'uomo, le sue due nature, devono tornare a coesistere. L’equilibrio, la
ragione e la misura di Apollo devono
ricongiungersi con il cuore, l’ebbrezza e l’entusiasmo di Dioniso. È sbagliato disgiungere forma e sostanza, cuore
e cervello, classico e scientifico: la separazione acuisce
i limiti di ciascuna parte separata dall'altra e previene i compensi e gli stimoli reciproci. Nel numero
# 329 di La Lettura del 18 marzo
2018, riferendosi ad una presunta narrazione mitologica – e pertanto
poetica – sull’origine dell’uomo sviluppata dai primi rappresentanti di Homo sapiens, il fisico Guido Tonelli concepisce un legame
profondo tra poesia, osservazione del cosmo, e cosmogonia; tra linguaggio
poetico e il linguaggio formale delle scienze, sostenendo che proprio nella sintesi delle sue due nature consista il vero, autentico, e unico spirito dell’uomo.