martedì 23 gennaio 2018

Esercizi di epistemologia applicata: DOMANDE E RISPOSTE – I parte

Questo è il primo di una serie di post attraverso i quali condivido con gli affezionati lettori un saggio breve costituito da TRENTA DOMANDE SULL'EVOLUZIONE (domande tra l'ingenuo e il provocatorio) e da TRENTA RISPOSTE a dette domande. Ad elaborare le risposte, a metà strada tra biologia e filosofia, è stato uno dei miei saggi maestri di medicina, il professor Claudio Rugarli. Il breve saggio titolava: Domande e risposte sull’evoluzione e sull’uomo. Per come il saggio si è riempito di contenuti (più grazie alle risposte che non alle domande) mi piace sottotitolarlo Esercizi di epistemologia applicata, titolo che assegno a questa serie di contributi.


Due parole sul coautore. Il Prof. Rugarli è un medico che stimo moltissimo, non solo e non tanto perché è stato uno dei miei più autorevoli maestri, ma perché nel corso dell’intera vita professionale, oltre a curare sapientemente le malattie, egli non ha mai cessato di guardare al lato umano delle persone che si rivolgevano a lui in qualità di medico. Infatti, il fil rouge del suo saggio più recente (Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura. Raffaello Cortina, 2017) è dato proprio dall’ineffabile interazione tra il logos dell’arte medica e ciò che, nella persona ammalata e nella sua malattia, è specificamente umano. Di vasta cultura interdisciplinare, Claudio Rugarli è Professore Emerito della Facoltà di Medicina dell’Università Vita-Salute San Raffaele, di cui è stato successivamente prorettore nonché delegato rettorale per la facoltà di Filosofia al momento della sua istituzione.

Claudio Rugarli
Le 30 domande non si limitano, per fortuna, all’evoluzione biologica, ma coinvolgono un po’ tutto ciò che si evolve: la vita (col suo nascere e col suo dover morire), la medicina, la cultura. Il saggio si occupa non tanto di dare impossibili risposte definitive su argomenti attorno ai quali l’uomo si interroga da sempre, ma di affrontare le questioni con un taglio filosofico che considera l’evoluzione come un meccanismo trasversale cui ogni cosa (fisica, biologica, culturale, mentale) è soggetta.    

Introduzione del saggio, in breve

Se la cultura dell’uomo sia soggetta o assoggettabile a meccanismi evolutivi assimilabili a quelli dell’evoluzione biologica, è un problema che mette in apprensione gli studiosi che si occupano in modo professionale o accademico di evoluzione biologica. Si può capire che un biologo evoluzionista sia restio a prendere posizione su un ipotetico evoluzionismo culturale: bisognerebbe disporre di un robusto modello teorico, di evidenze sperimentali e di tutto ciò che serve a dimostrare, o quantomeno a costruire, un’ipotesi scientifica.  Ci sono già tante tensioni attorno all’evoluzionismo delle forme viventi che non è proprio il caso, per un biologo evoluzionista, di andare a cercare guai in un campo così scivoloso come quello dell’evoluzionismo culturale, percepito, per di più, come più affine alla metafisica che non alla scienza.
[…] Uno dei primi scienziati a interrogarsi sul dispiegarsi e sul trasformarsi del pensiero umano secondo una visione improntata all’evoluzionismo Darwiniano è stato Ernst Mach, fisico sperimentale alle Università di Praga, Brno e di Vienna nei decenni a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento. Nella conferenza, intitolata Trasformazione e Adattamento del Pensiero Scientifico, tenuta il 18 ottobre 1883 in occasione dell’assunzione dell’incarico di Rettore dell’Università di Praga, egli si espresse con le seguenti parole: “Sebbene la caratteristica dei pensieri non possa essere in tutto simile a quella delle forme viventi, e si debba evitare qualsiasi forzata comparazione, tuttavia la Legge generale dell’Evoluzione e della trasformazione, se Darwin ha visto giusto, deve valere anche per essi” (Ernst Mach. L’evoluzione della Scienza. Nove Lezioni Popolari. Traduzione e cura di Massimo Debernardi. Edizioni Melquìades, Milano, 2010).
[…] non si può negare che sull’argomento ci sia un vivace dibattito che vede in prima linea insigni studiosi che, al contrario, non hanno nessun timore ad esporre i propri convincimenti. Uno di questi è Luca Cavalli Sforza, genetista e antropologo di assoluto valore internazionale, autore del saggio intitolato L’evoluzione della cultura (Codice Edizioni, Torino, 2010), dove si rimarca il valore antropologicamente adattativo della cultura e della sua evoluzione. Un altro è Giovanni Felice Azzone, patologo, epistemologo, accademico dei Lincei, autore del saggio intitolato Perché si nasce simili e si diventa diversi? La duplice nascita: genetica e culturale (Bruno Mondarori, Milano 2010), dove si attribuisce al sistema mente-cervello l’elemento di novità che consente all’uomo di coevolvere assieme alla propria cultura.
[…] Ecco che arrivano le domande. È impossibile trattenersi dal farsi domande… Ed ecco anche le risposte del Professor Rugarli, risposte che hanno dato maggior valore alle domande…

Domande e Risposte
# 1

Domanda 1. La gran parte di queste domande si riferisce all'avoluzione culturale dell'uomo. Pertanto, bisognerebbe prima rispondere alla domanda se la cultura, e quindi l’evolvere delle sue forme, può essere considerata un elemento con valenza evolutiva, potendo influire sulla selezione o sull’adattamento e tenendo conto che radicali mutamenti culturali possono instaurarsi in tempi molto brevi, mentre l’evoluzione fenotipica-funzionale sembra avere bisogno di tempi computabili in decine o centinaia di migliaia di anni.
I teologi indicano con il termine di sententia temeraria alcune affermazioni che, pur non rappresentando una evidente eresia nei confronti del dogma o del comune e condiviso sentire, tuttavia si collocano nell’errore o in stretta e pericolosa prossimità con l’errore. Non escluderei che alcune delle prossime domande, e i presupposti che vengono portati come pretesto alle domande stesse, possano essere definiti con l’espressione sententia temeraria.

Sententia temeraria, ovvero di come si può finire all’inferno

Risposta 1. Che la cultura dell'uomo, intesa come insieme di conoscenze, di credenze e di interessi, sia cambiata e continui a cambiare nel tempo è di per sé evidente. Perciò, il problema che si pone quando si parla della evoluzione culturale è se questa avvenga con meccanismi analoghi a quelli della evoluzione biologica o no. A mia memoria il primo ad affrontare formalmente questa possibilità è stato Richard Dawkins, etologo della Università di Oxford, nell’ultimo capitolo del suo libro Il gene egoista (in Italia pubblicato da Zanichelli in prima edizione nel 1979) nel quale si parla di memi, ossia di strutture elementari imitative, analoghe ai geni, trasmesse per l’appunto per imitazione attraverso la comunicazione (così come i geni lo sono con la riproduzione), casualmente deformabili nel corso della comunicazione e con deformazioni trasmissibili, se esistono le condizioni adatte per selezionarle. A ben riflettere, il discorso di Dawkins si limitava alla evoluzione del linguaggio, a spiegare perché l’inglese contemporaneo è diverso da quello di Chaucer, e non era molto persuasivo per quanto riguarda i fattori di selezione. Ma già alcuni anni prima, il Premio Nobel Jacques Monod aveva parlato della selezione delle idee, scrivendo Il confronto tra evoluzione delle idee ed evoluzione della biosfera è un tema affascinante per un biologo poiché, se il Regno astratto trascende la biosfera ancor più di quanto questa trascenda l’universo non vivente, le idee hanno pur conservato certe proprietà degli organismi. Come questi, esse tendono a perpetuare e moltiplicare la propria struttura; come questi, esse possono fondersi, ricombinarsi, segregare il loro contenuto; come questi, infine, esse si evolvono e, in quest’evoluzione, la selezione, forse, svolge una funzione fondamentale”. E Monod si spingeva a indicare i fattori di selezione delle idee aggiungendo "È evidente che le idee dotate del più elevato potere di penetrazione sono quelle che spiegano l’uomo, assegnandogli un posto in un destino immanente, in seno al quale la sua angoscia si dissolve" (Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori, 1970, pag. 133). In realtà i fattori di selezione delle idee possono variare in un ampio ambito, che va dalla predilezione per le idee che promettono vantaggi materiali, che possono essere sacrosanti e non semplicemente egoistici, alla affermazione di ideali religiosi o filosofici. Su questo punto ci sarebbe molto da dire, ma non voglio appesantire prematuramente il discorso.
Detto questo, qualcuno potrebbe osservare che la stessa idea di evoluzione culturale è poco rilevante e non si vede che cosa possa aggiungere alle opinioni che si possono avere sui mutamenti culturali nel tempo. Io non credo che sia così e penso che l’analogia con la evoluzione biologica comporti delle conseguenze non banali. Nella evoluzione biologica a generare la variabilità sottoposta al vaglio della selezione è il caso, così si può pensare che la stessa variabilità sia generata nella evoluzione culturale dalla libertà. Si deve concludere che senza libertà non c’è evoluzione e questo può spiegare il crollo dei regimi comunisti, che erano lamarckiani e non darwiniani. Sopravvive il regime comunista cinese che si è accontentato di essere lamarckiano in politica, ma non lo è in economia. Un altro aspetto interessante è che la libertà non deve essere intesa soltanto come assenza di costrizioni, ma anche e soprattutto come libertà di immaginazione, che nella evoluzione culturale è l’equivalente delle mutazioni che sono alla base della evoluzione biologica.

# 2

Domanda 2.  In quanto uomini ci consideriamo al vertice dell’albero della vita. Siamo in cima all’albero e guardiamo l’intera biosfera dall’alto in basso. L’alto è sinonimo di qualità. Più si sta in alto, più si è migliori. Questo assunto potrebbe essere discutibile. Più complesso non vuol dire necessariamente migliore (bisognerebbe prima definire che cosa si intende per migliore).  Più intelligente non significa necessariamente più adatto: bisogna mettere in relazione l’essere adatti con la nicchia cui si appartiene. Ma anche all’interno della nicchia di riferimento possono esistere esseri meno intelligenti ma più adatti (si può fare una certa ironia su questa proposizione). Una domanda di partenza potrebbe quindi essere: l’uomo è davvero dominante nella biosfera? Credo che pochi potrebbero rispondere affermativamente senza esitazione. E poi, come si misura l’essere più o meno adatti? In individui per metro quadro? Per superficie di terra colonizzata? Per peso totale della biomassa di una determinata specie? Per numero assoluto di individui?

Risposta 2. Mi pare che la domanda secca sia: l’uomo è veramente il culmine della evoluzione biologica? Mi sentirei di rispondere di sì. Infatti, nessuna altra specie animale ha una evoluzione culturale e perciò una storia. Ci si potrebbe azzardare anche ad affermare, che, dal punto di vista biologico, l’uomo rappresenta un punto nel quale l’evoluzione si è arrestata. Infatti, per acquisire delle qualità somatiche superiori occorrerebbe che gli individui che le posseggono avessero più discendenza, e cioè si accoppiassero preferenzialmente e si riproducessero più degli altri. Ma questo contraddice alcuni tratti distintivi della natura umana che, come ho detto precedentemente, presuppone la libertà e l'immaginazione. I nazisti ci provarono, cercando di adottare per la popolazione della Germania le stesse tecniche degli allevatori di bestiame, ma i risultati sono stati fortemente negativi. E poi, quali sono le caratteristiche somatiche superiori, esser alti, biondi e dolicocefali o essere più intelligenti? Si sarebbe inclini a optare per la seconda scelta, posto che l'intelligenza, qualità difficile da definire, sia geneticamente determinata (per me è possibile che lo sia in parte, ma è largamente influenzata da quei condizionamenti che determinano l'evoluzione culturale). Ma è difficile che il cosiddetto assortative mating, ossia l’accoppiamento privilegiato in base a certe caratteristiche, avvenga prevalentemente in base all'intelligenza dei partner, e poi che le coppie più intelligenti abbiano più figli delle altre. Anzi, il genetista Theodosius Dobzhansky (L’evoluzione della specie umana, Einaudi, 1965) scrisse che le coppie più intelligenti sono probabilmente più efficienti nel controllo delle nascite e che perciò è verosimile che abbiano meno discendenza. Il risultato sarebbe, nel tempo, una diminuzione e non un aumento della intelligenza umana. Perciò, è ragionevole pensare che, dal punto di vista biologico, l’evoluzione della specie umana è conclusa ed è sostituita dall'evoluzione culturale.
Questo non deve spingerci a peccati di orgoglio. In termini numerici la specie umana si è accresciuta nel tempo, soprattutto nell’ultimo secolo, ma questo non significa che sia la più potente. Per esempio, l’umanità rischierebbe di essere sterminata se emergesse un virus che venisse trasmesso facilmente come quello influenzale, ma che avesse le stesse caratteristiche del virus HIV, causa dell'AIDS, condizione nella quale chi è infettato resta apparentemente sano per un lungo periodo pur essendo contagioso. Comunque, è certamente vero che esistono nicchie ecologiche nelle quali esseri umani con minore intelligenza, ma più attrezzati ad affrontare certe difficoltà dell’ambiente, possono cavarsela meglio. Ma questo vale fino a un certo punto, perché la cultura finisce sempre per venire in soccorso di chi all’inizio era più debole. Alla fine, Robinson Crusoe se la cava meglio di Venerdì.

Robinson Crusoe con Venerdì

Nel prossimo post di questa serie alcune altre Domande e Risposte. 

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