venerdì 1 gennaio 2016

Genetica come ALIBI

GENETICA COME ALIBI (DOVE IN BALLO C’È LA LIBERTÁ).

La responsabilità consiste nel prevedere e nel comprendere le conseguenze delle proprie azioni assumendosene l’onere. La responsabilità consegue dalla libera scelta, anche se quest’ultima non è del tutto incondizionata. 
La libera scelta di Homo sapiens (vale a dire noi) può essere condizionata da due elementi: la natura di cui siamo fatti, la cultura con cui siamo plasmati. Homo sapiens sta lì in mezzo, in equilibrio, tra natura e cultura. 
La prima ci trasmette l’istinto, la seconda i modi per non esserne succubi. La prima costituisce “Homo”, la seconda costruisce “sapiens”. Natura e cultura si fondono nell’epicentro del nostro sentire e del nostro agire: il cervello, strumento da usare possibilmente sempre. Il vecchio dualismo natura-cultura sa ormai di stantio, di molto stantio. Nella costruzione del sapiens (se è di questo che ci occupiamo) natura e cultura sono un’amalgama indissolubile così come lo sono, nella costruzione di una solida casa,  l’acqua e il cemento: come diceva il famoso antropologo francese Edgar Morin, “privato della cultura, sapiens sarebbe un soggetto ritardato, incapace di sopravvivere se non come un primate del più infimo ordine” (Le paradigme perdu: la nature humaine, 1973). Sarà perché ho appena pubblicato il saggio William Bateson, l’uomo che inventò la genetica, sarà perché le relazioni tra scienza e società mi hanno sempre affascinato, vorrei discutere molto brevemente di questi rapporti prendendo spunto da messaggi pubblicitari che sgorgano senza controllo dalla televisione. Questi messaggi, che veicolano interessi economici del tutto ovvi, tendono a turbare il giusto equilibrio tra natura (biologia) e cultura (trasmissione non biologica delle informazioni), finendo anche – di rimando – a ridurre la responsabilità, e quindi la libertà, delle scelte del destinatario. Veniamo al dunque.    
   


Nella pubblicità di un famoso fuoristrada si dice: “Circa un quarto delle persone ha la variante genetica DRD4-7R, detta anche gene dell’avventura. Chi la possiede è più avventuroso, più coraggioso, e sente un forte impulso ad esplorare, ma per soddisfare la necessità di esplorare servono gli strumenti che rendono possibile tutto questo” (vedi filmato). 
Dove il messaggio vuole andare a parare è chiaro e limpido. Per l’ascoltatore digiuno di genetica non è altrettanto chiaro come gestire razionalmente l’informazione. Chi la propone vorrebbe trasmettere l’idea dell’esistenza di una pulsione invincibile geneticamente determinata, quando invece si ha a che fare soltanto con una certa interpretazione di dati statistici di natura biologica. Qui sta l’inghippo. Dall’immenso mare dei risultati scientifici che gli scienziati condividono tra loro, se ne estrapola un pezzetto; lo si estrapola dal suo contesto molto complesso e lo si propone in un altro contesto, molto semplificato, e se ne fornisce una lettura ancora più semplificata, buona per i palati più semplici: “Se ti senti invincibilmente desideroso di possedere questo fuoristrada forse è perché tu sei una di quelle persone, una su quattro, che possiede il gene dell’avventura. A questo istinto non ti puoi opporre, perché è inciso nel tuo DNA. Non puoi fare a meno di avere questo fuoristrada”. Ecco qua che il desiderio a possedere un fuoristrada diventa un istinto primario, che non può più essere modulato dal raziocinio del sapiens: la natura vince sulla cultura. Ma se la natura costringe a un’unica scelta, questa – oltre a non essere libera – non è più nemmeno una scelta. Con ciò, assieme alla libertà, se ne va anche la responsabilità che discende dalla capacità di scegliere consapevolmente.   
A chi volesse saperne di più su questo fantomatico “gene dell’avventura” suggerisco di leggere un articolo divulgativo semplice e ben scritto, pubblicato un paio d’anni fa sulla versione italiana di National Geographic: L’inquietudine dei Geni, dove il genetista Kenneth Kidd, della Yale University, afferma con semplicità: “Non si può ridurre a un singolo gene una realtà complessa come l’esigenza umana di esplorare. La genetica non funziona così”. 
Nell’estate del 2014, il Prof. Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri aveva pubblicato un bell’articolo intitolato Ho fatto il test del DNA, ti cambia la vitaNel suo articolo, da me ripreso in un articolo intitolato La mappa del DNA e il rischio di ammalare, egli faceva chiaramente riferimento al fatto che se non si conoscono i meccanismi della genetica (cosa normale per i comuni mortali che non si occupano in modo specifico di questa disciplina) una qualunque informazione di tipo genetico che ci riguarda – oltre al panico che può creare in vece della rassicurazione che si andava cercando – da elemento potenzialmente utile si può trasformare in ALIBI dannoso e potenzialmente autodistruttivo, buono solo per rinunciare a parte della nostra libertà e per abdicare all’obbligo della responsabilità. Se non ne hai il controllo, la forza vale poco: altrettanto dicasi per i geni.

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