Recentemente mi è capitato tra le mani (vale a dire sullo schermo del mio computer) un fascicolo di una rivista filosofica digitale: I quaderni delle Ginestre. Quel fascicolo (2016) si intitolava Attraverso la società degli individui e presentava una serie di agili articoli sul tema dell’individuo e sul correlato tema della libertà: temi che molto hanno a che fare con la filosofia ma al cui interno, a voler ben guardare, un piccolo ruolo sociale lo gioca anche la scienza.
Nell’articolo L’Etica del
Reincanto, Alberto Meschiari, (che assumerò come spirito guida
di questa conversazione) espone il proprio senso di straniamento rispetto ad
alcuni “valori” fondanti dell’epoca nella quale stiamo vivendo e che cozzano
profondamente con quelli con cui è stato allattato chi, come me, è nato negli
anni cinquanta del secolo scorso. Il punto sollevato dall’autore è semplice e
chiaro: «Rispetto
agli anni Sessanta e Settanta, in cui i grandi ideali sociali e politici
nutrivano e stimolavano l’impegno personale e il fare insieme, a partire dagli
anni Ottanta ho avvertito crescere intorno a me il disagio e lo smarrimento a
mano a mano che il mercato prendeva il sopravvento sulla politica, determinando
sempre più pesantemente i valori di riferimento e gli stili di vita…, tradendo
quell’afflato etico che l’aveva caratterizzata nella precedente stagione, portando
allo sgretolamento non solo della compagine sociale ma anche dell’identità
personale…».
Ripenso, dunque, a quegli anni Cinquanta e Sessanta
in cui - inconsapevole bimbetto - cominciavo a calcare la terra. Si
era nel dopoguerra. La ricostruzione era in atto. Alla ricostruzione delle cose
si affiancava quella dello spirito, con l’aspirazione alla conquista di un maggiore benessere e di una rinnovata libertà. In parole povere si aspirava a un mondo
migliore. E la scienza che cosa ci proponeva in quegli anni? La chimica
ci aveva regalato la penicillina. Scoperta negli anni trenta da Alexander
Fleming e sperimentata negli anni della guerra negli ospedali militari
americani, negli anni Cinquanta era diventata un patrimonio universale capostipite
di altri antibiotici. Ciò consentì uno straordinario salto di qualità nella lotta
contro le malattie infettive, fino ad allora il più grande flagello per l’umanità.
C’era di che essere entusiasti. E ancora, nel 1950 Tadeusz
Reichstein, Edward Kendall e Philip Hench ricevettero
il Premio Nobel per la scoperta del cortisone, altro potente farmaco che
rivoluzionò le potenzialità terapeutiche di un armamentario medico fino ad
allora piuttosto modesto. Ma non finisce lì. Nei paesi industrializzati
tra il 1950 e il 1960 trovò ampia diffusione la vaccinazione contro la tubercolosi.
Iniziata negli anni Trenta, fu resa più efficace e sicura a partire dagli
anni Cinquanta. Assieme ai farmaci tubercolostatici sintetizzati in quegli anni fu essenziale per fronteggiare una delle malattie contagiose più
diffuse nel mondo. Ricordo i francobolli a sostegno delle campagne di
vaccinazione contro la tubercolosi. Le famiglie erano invitate ad acquistare i francobolli e noi bambini ci rendevamo partecipi
incollandoli sulla prima pagina dei nostri quaderni.
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Francobolli a favore della campagna per la vaccinazione antitubercolare |
In quegli anni la partecipazione
solidale al benessere di tutti faceva bene non solo ai singoli, ma anche al
corpo sociale e allo spirito di appartenenza. Oggi non si può dire lo stesso.
In quegli stessi anni però, la scienza
aveva messo nelle mani dei potenti l’ordigno “Fine di Mondo”, per
dirla con le parole del Dr. Stranamore (Stanley Kubrick,
1964). La scienza, forniva
al tempo stesso gli strumenti per rendere il mondo migliore debellando le
malattie e quelli per renderlo assai peggiore, sterminando l’umanità o,
quantomeno, tenendola perennemente sotto scacco, sospesa sull’orlo dell’abisso.
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Fotogramma dal film di Stanley Kubrick, Il Dr. Stranamore |
Dal punto di vista psicologico - come da quello filosofico, esistenziale e politico - gli individui avevano
due buone ragioni per privilegiare lo spirito collettivo rispetto all’individuale. La prima (ottimistica) per costruire tutti insieme un mondo migliore. La
seconda (pessimistica) per cercare sicurezza all’interno della propria comunità di
appartenenza. In entrambe le prospettive, l’idea di libertà trovava ampie coniugazioni cariche di
tensioni esistenziali e ideologiche. Da una parte, l’entusiasmo per la
costruzione di un mondo migliore implicava la costruzione di un delicato
rapporto tra le libertà individuali e le esigenze collettive di
giustizia sociale. I movimenti di rivendicazione dei diritti sociali
e di quelli civili, che vedranno la luce negli anni Settanta rispettivamente in Europa e negli Stati Uniti, trovarono una delle loro radici proprio in questa tensione tra libertà individuali ed esigenze collettive. Dall'altra
parte, i timori per un mondo peggiore portarono alla strumentalizzazione del
concetto di libertà. Fu creata una netta contrapposizione tra amici e nemici della libertà, scavando tra le due sponde un invalicabile solco ideologico tra
buoni e cattivi, vale a dire tra Europei e Americani da una parte, Russi
e Cinesi dall’altra. Prese di coscienza operaie e studentesche, rivolte e terrorismi di varia
matrice (e non ultimi i vari fronti delle guerre indocinesi), fornivano ampia materia per entusiasmi
e paure contrapposte, al cui interno chi viveva consapevolmente quei tempi costruiva
e difendeva identità e valori.
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Muhammad Ali (Cassius Clay), arrestato nel 1967 per renitenza alla leva per aver rifiutato di arruolarsi per la Guerra del Vietnam |
Erano anni di grandi tensioni anche attorno al senso da dare al termine stesso di libertà. In
quegli anni, i filosofi francesi molto filosofeggiavano sulla libertà, così
come sullo stesso tema molto poetavano poeti della Beat Generation americana.
Da noi, due intellettuali mordevano il tema, addentando profeticamente il
nocciolo della questione. Pierpaolo Pasolini, da una parte, prevedeva
che l’allora nascente consumismo avrebbe ridotto la libertà a brandelli,
trasformando un valore fondante in un riflesso del desiderio di autocompiacimento. Pasolini coniugava al presente di quegli anni la falsità di quella “felicità garantita dall’alto, e
assicurata da un’intera struttura sociale che non riconosce altro valore che
l’immediata soddisfazione dei sensi”, preconizzata fin dagli anni Trenta da
un autore il cui sguardo arrivava molto lontano (Aldous Huxley, New
Brave World, 1932). Dall'altra, Luciano Bianciardi metteva in risalto la necessità di dare alla libertà un senso dinamico, quasi fosse un motore vitale da manutenere con cura, affinché non si fermasse nemmeno di fronte a quelli che potevano sembrare obiettivi raggiunti: “Libertà è saper demolire, ribaltare tutto ciò che si è faticosamente raggiunto” [da un ricordo personale di Luciana Bianciardi, figlia dell’omonimo scrittore (LINK della fonte)].
Gli anni Sessanta furono anche
quelli del DNA, la doppia elica di Watson e Crick e del loro
premio Nobel. La doppia elica, e il Progetto Genoma che sarebbe arrivato
più tardi, erano gravidi di promesse, molte delle quali sono state mantenute. Ma accanto a queste nascevano anche nuove questioni, prima fra tutte quella sul determinismo genetico, un
oggetto pericoloso e foriero di impegnative conseguenze,
per esempio sugli aspetti giuridici della responsabilità e su quelli
filosofici sulla libertà.
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Determinismo genetico: immagine allegorica |
Gli anni Settanta furono bui e turbolenti,
portatori di sviluppo ma anche di inquietudine: anni di transizione e di
tecnologia. Qualcosa stava cambiando. Ma cosa, e come?
Arrivarono gli anni Ottanta. All’esterno
successero varie cose. La rivoluzione persiana degli Ayatollah con la
conseguente sconfitta della libertà. Più tardi, la caduta del muro con l’altrettanto conseguente vittoria della libertà. Venne poi la pecora Dolly, con tutti i suoi inquietanti problemi, tra
cloni e incubi distopici di varia natura. Ma la crisi doveva arrivare dall’interno
del corpo sociale. Le speranze frustrate e le tensioni accumulate nei decenni
precedenti implosero, trascinando con sé sogni e valori. Dal mucchio di macerie
emerse vigoroso il mito dell’io, dell’individuo al di sopra degli altri,
delle libertà individuali a scapito del bene comune, quale che fosse.
Un miscuglio di crisi e nuove
speranze animò gli anni Novanta. Mani pulite ridusse in polvere la
cosiddetta prima repubblica, sostituendola con una non certo migliore, anche
qui all’insegna della libertà, con i Partiti, i Popoli, le Case della
Libertà, e tutto ciò che ne è conseguito. Ma fu anche il decennio in cui nacque
L’Unione Europea, con la libertà di movimento per cose e persone. Nacque
anche un nuovo, straordinario, e fantascientifico simbolo di libertà. Grazie
alla scienza e alla tecnologia, il 6 agosto 1991 nacque un segno e un simbolo: il www (world
wide web). Abbiamo finalmente il mondo in pugno (ma sorge anche il sospetto che sia lui ad avere in pugno noi).
La
successiva decade si apre con una data fatidica: 11 settembre 2001. Un
bello scossone per noi, per la libertà, per i nostri sogni, per l’idea di
futuro e per quella che abbiamo di noi stessi, sempre in bilico sull’orlo dell’abisso.
«Guardandomi attorno», afferma
Meschiari nel suo articolo, «oggi mi pare di leggere su molti
visi ogni giorno di più i segni di un sofferto “vuoto esistenziale”».
Le esperienze del mondo, sembra dire, ci hanno ferito: siamo diventati
disincantati e «forse abbiamo spinto troppo innanzi, con un’intenzione cieca
e caparbiamente autodistruttiva, il nostro disincanto: niente ci
colpisce profondamente, niente ci tocca veramente, tutto ci è indifferente allo
stesso modo. Ostentiamo perfino con sfrontatezza il nostro disincanto come un
segno di virilità e di emancipazione». Come dargli torto? Aveva
ragione Pasolini: siamo stati svuotati (col nostro consenso, per giunta)
della nostra autonomia e veniamo sballottati qua e là da giochi di potere che
ci usano come birilli. E non abbiamo nemmeno seguito l’esortazione di Bianciardi:
non abbiamo ribaltato un bel nulla, soprattutto dentro di noi, per la paura di
perdere qualcosa che credevamo ci appartenesse. Bravi asini: non possiamo
neanche lamentarci! E invece lo facciamo, perché è l’unica cosa che molti di noi sono ormai in grado di fare.
Per fortuna la scienza ci
dà una mano. Ci dà una mano perché ora, finalmente, siamo in tanti, tutti
connessi tra noi. Popolo di tutto il mondo, unitevi! Slogan
sorpassato, questo. Siamo già tutti uniti e connessi ma, come dice saggiamente Meschiari:
«Siamo costantemente connessi con l’esterno, mai con la nostra interiorità». Ci siamo quasi esternalizzati da noi stessi, si direbbe. Ci siamo ridotti a
cose: iperconnessi, sì, ma sempre cose. E questo essere cose è il vero trionfo
dell’individualismo. Connessione è cosa ben diversa da Relazione.
E veniamo agli anni più recenti che,
dal punto di vista delle scienze, sono quasi l’apoteosi di un avvenire ricco
di conquiste e di sapere. Chi mi conosce sa che sono un propugnatore
della comunione e della commistione tra scienze dure e scienze umane. Tuttavia …
c’è sempre un tuttavia …
Osservo un titolo di una pagina
ANSA che recita La scienza favolosa dei primi 20 anni 2000. L’articolo mi informa che negli ultimi anni 1) l’intero genoma umano
è stato mappato; 2) è stata ottenuta la prima cellula sintetica,
chiamata Syn 1.0; 3) è stato finalmente individuato il bosone di Higgs, Sacro
Graal (sic) della fisica delle particelle; 4) al CERN di Ginevra sono riusciti
a produrre e a intrappolare (conservare) atomi di antimateria; 5) l’11
febbraio 2016 sono state rilevate per la prima volta le onde gravitazionali;
6) il 10 aprile 2019 è stata eseguita la fotografia impossibile: quella di un buco
nero.
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Buco nero M97 fotografato dall'Event Horizon Telescope (EHT) |
Naturalmente c’è molto di più di
questo. Per esempio, l’intelligenza artificiale e l’interazione uomo-macchine
comincia ad appartenere al presente e non solo alla fantascienza. Le auto si
guidano da sole e i razzi atterranno verticali nello stesso modo in
cui partono. Il 60% dei tumori risulta guaribile e si possono costruire farmaci antineoplastici personalizzati. La scienza avanza, dunque, e ne godremo certamente i benefici. Tuttavia
il solco tra scienze dure e scienze umane si allarga. È quasi impossibile
mettere in relazione le scienze umane – fondamentalmente tese a rispondere a
quesiti universali e a indagare quelle incerte aree dell’essere che di volta in
volta prendono il nome di anima, spirito, interiorità – col sapere sull’antimateria,
sulle onde gravitazionali, sui buchi neri.
La nostra identità – e con essa i
punti di riferimento, i valori e le relazioni interpersonali – richiederebbe
una certa unitarietà tra quello cha appartiene al corpo (questioni fisiche e biologiche
incluse) e quello che appartiene allo spirito. Questa unitarietà si va
scompaginando. Anche il più recente accadimento di questo secolo all’esordio - la pandemia da Coronavirus (accadimento insieme scientifico e umano) - invece di far tendere l’ago della bilancia verso un recupero dell’unitarietà
persevera in direzione opposta: quella della divaricazione. Nel nome di una perduta
libertà, gli individui rivendicano il diritto (in teoria legittimo e sacrosanto)
alla socialità, non fosse però che, già prima della pandemia molti scambiavano
la necessità di “condividere qualcosa di sé con gli altri” con l’utilizzo
strumentale degli altri per dare libero sfogo al proprio edonismo. Il diritto alla
socialità viene da taluni rivendicato e difeso come diritto inalienabile, hic
et nunc, anche a scapito del serio rischio sanitario collettivo. Questo male
sociale era manifesto ben prima dello scoppio della pandemia, che l'ha solo reso più evidente. E mentre i singoli e la collettività
intera sono alle prese con questo problema che è insieme sociale e identitario e
che mette in gioco valori, la scienza – mentre fa il suo mestiere di
cercare soluzioni tecniche per rallentare la diffusione del morbo – sembra
occuparsi molto del morbo e poco delle persone, mantenendo quella sorta di disumanizzazione
di cui la medicina ha iniziato a soffrire da qualche decennio, a causa
soprattutto delle iperspecializzazioni, come aveva preconizzato molti anni or
sono l’epistemologo milanese Felice Mondella.
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Felice Mondella nel suo studio milanese |
Era sembrato, un anno fa, che la
pandemia avrebbe potuto essere l’occasione per una grande riflessione
collettiva che potesse portare a una revisione dei valori fondanti della
società umana nella quale le esigenze collettive e quelle individuali potessero
ritrovare un equilibrio solidale. In questo quadro idilliaco, scienza e
filosofia, corpo e spirito, avrebbero dovuto ricreare antiche e perdute alleanze.
Ci eravamo illusi. Forse la scamperemo ancora una volta anche senza procedere a
una grande riflessione collettiva, ma un ripensamento globale è urgente e
ineludibile, anche per tutte le sfide che là fuori ci attendono, cambiamento
climatico incluso.