Ottant’anni fa (1938) veniva pubblicato il “Manifesto della Razza”, un documento nefasto nel metodo non meno che negli intenti. Il Manifesto si basava su una sedicente dimostrazione scientifica della diversità biologica delle razze umane. Su tale base i regimi autocratici e autoritari della prima metà del secolo scorso affermavano la superiorità di alcune razze su altre.
Di recente, è stato pubblicato un
contro-manifesto, il “Manifesto della Diversità Umana” (vedi testo), dove si sottolinea il fatto che le attuali
conoscenze consentono di affermare il contrario, vale a dire che non esistono basi
biologiche per affermare l’esistenza di razze in ambito umano. Implicitamente,
ciò significa che non esiste un quadro biologico di riferimento sulla cui scorta si possa
stabilire l’invocata superiorità di un gruppo umano rispetto ad altri gruppi
umani.
Ciò ovviamente non significa che
non esistano tratti ereditabili caratteristici di determinate popolazioni. Per
lo più, tali tratti corrispondono all’espressione di caratteri di tipo
adattativo sviluppatisi a livello locale e accumulatisi (segregati) nelle varie
popolazioni quando queste erano relativamente isolate una dall’altra e gli
scambi genetici tra loro erano oltremodo rari. La pelle scura degli africani,
gli occhi a mandorla degli asiatici, i capelli biondi di alcune popolazioni
nordiche ne sono il classico esempio.
The Golden Rule (Norman Rockwell, 1996) La coesistenza delle varietà umane e delle loro culture |
È mia consuetudine non entrare
troppo nei dettagli tecnici degli aspetti biologici ed è anche mia consuetudine
non appoggiare l’una o l’altra di tesi contrapposte anche se, in questo caso, non
ho difficoltà a sostenere l’inadeguatezza dei supporti biologici al concetto di
razza in ambito umano. I miei interventi sono prevalentemente di carattere
epistemologico: sostanzialmente, le mie critiche sono rivolte più all’aspetto metodologico
e semantico di affermazioni di carattere scientifico, in modo particolare se da
tali affermazioni si vogliono far discendere massime ideologiche (cosa che di
per sé dovrebbe essere estranea alla scienza). È noto infatti che là dove si
utilizzano argomenti scientifici per sostenere argomenti ideologici, non sono
quasi mai i primi a sostenere i secondi, ma sono quasi sempre quelli ideologici
ad interpretare o a distorcere a proprio vantaggio gli argomenti scientifici (l’uso
politico la teoria “scientifica” contro la genetica mendeliana sostenuta da Trofim Lysenko, è un esempio lontano ma
paradigmatico, e se ne possono trovare molti altri).
Nella relazione “razza ↔
biologia” (relazione stretta secondo alcuni, lassa secondo altri), entrambi
i termini – “razza” e “biologia” – sono fluidi, evanescenti, dai limiti
incerti. Quanto alla biologia, ci si potrebbe per esempio chiedere quanti geni sono indispensabili
per definire una differenza razziale: dieci, cento, mille, su un totale
approssimativo di ventimila, secondo i dati più aggiornati dello studio sul
Genoma Umano? La risposta è impossibile
per diverse ragioni: alcuni caratteri si formano attraverso la collaborazione di
numerosi geni mentre, di converso, alcuni geni cooperano alla costituzione di
molti caratteri, anche molto diversi tra loro. Alcuni geni hanno effetti enormi,
altri sembrano avere effetti quasi insignificanti.
Una regola quantitativa, quindi, non può essere data mentre una regola
qualitativa non esiste. E che dire del significato di alcuni dati “percentuali”
riguardanti il DNA? Tre dati esemplificativi della questione: 1) il DNA degli
umani differisce solo per il 4% da quello degli scimpanzé o dei bonobo; 2) il
5-10% del DNA delle popolazioni umane attuali deriva in modo inequivocabile da
antiche popolazioni Neanderthal (vedi articolo su Le Scienze 27 novembre 2018);
3) solo il 2% circa del DNA umano circa codifica direttamente proteine, tutto
il rimanente sembra avere funzioni strutturali e modulatrici. Tutto ciò per
dire che affermazioni come “la biologia dimostra che…” vanno
sempre e in ogni caso prese con le pinze e su queste non è metodologicamente
lecito stabilire “verità” e ancor
meno “verità ideologiche”.
Il concetto di razza è estraneo alla genetica dell'uomo |
L’altro termine della relazione è
“razza”. Va detto, innanzitutto, che
questo termine non è scientifico. Le classificazioni biologiche distinguono generi, specie, varietà, non
“razze”. Nell’ambito di una specie possono esistere sottospecie e varietà che
possiedono “caratteri distintivi, stabili, ed ereditabili”: i caratteri delle
cosiddette razze umane sono ereditabili ma non così distintivi e stabili, per
via del fatto che i vari gruppi umani cui il termine si applica non sono
sufficientemente isolati dagli altri gruppi umani per rendere tali caratteristiche
stabili.
Il termine “razza” designa quindi
in modo empirico differenze esteriori comuni e relativamente aleatorie ma non
comprende differenze essenziali di tipo cognitivo. Piccole differenze genetiche
e le differenze esteriori possono disegnare la storia, l’evoluzione, le
emigrazioni dei gruppi umani: non le caratteristiche umane fondamentali.
Nei diversi gruppi umani (che
possiamo chiamare popolazioni, popoli, tribù, ecc.) le differenze che contano, e
che sono anche eventuale causa di scontro, sono tutte di tipo culturale e
dipendono dalla storia di ciascuna popolazione. Il termine “razza” si configura
quindi come una sorta di sintesi in cui si tende a legare (in forma stabile ed
ereditaria) qualche carattere esteriore con qualche caratteristica culturale.
Ovvio ed evidente che siffatto termine si presta ad ogni genere di deriva
ideologica e di deformazione morale: un termine ideale per operare
differenziazioni arbitrarie dalle ovvie ricadute sociali, politiche, economiche.
Il fatto poi che i diversi popoli, pur non essendo separati da inesistenti barriere
biologiche, si sentano diversi gli uni dagli altri per motivi culturali (e che
su questa base alcuni di essi vantino una presunta superiorità sugli altri), questa
è tutta un’altra questione e richiede una discussione a parte, non di tipo
biologico, bensì antropologico.
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