Nel post precedente, s’era concluso affermando che la condivisione è una caratteristica fondante del fare scienza e del metodo scientifico.
Condividere le conoscenze |
Ci si potrebbe chiedere “con chi” lo scienziato deve condividere il suo sapere. La risposta più ovvia è “con tutti” anche se, di questi “tutti”, solo pochissimi sono in grado di capirci qualcosa e di partecipare all'impresa: gli altri, non capendo, facilmente traviseranno (un capitolo a parte di questa questione riguarda il difficile tema della divulgazione scientifica). Questo “tutti”, dunque, non solo è ingannevole ma è anche pericoloso.
La questione, in fondo, è semplice: i destinatari precipui della condivisione scientifica sono gli scienziati medesimi, i quali comunicano
tra loro attraverso canali istituzionali (convegni e letteratura dedicata) e,
cosa di primaria importanza, condividendo un linguaggio tecnico. Questo, facilita la comunicazione tra adepti ma, al pari dei linguaggi iniziatici, costituisce un insuperabile ostacolo alla comprensione da parte di chi è estraneo non solo alla scienza, ma financo alla singola disciplina specifica.
La letteratura
scientifica attraverso cui gli scienziati comunicano è relativamente pubblica e
accessibile ma i contenuti di tale letteratura, per essere resi accessibili al
grande pubblico, debbono venir tradotti e semplificati da esperti divulgatori capaci di adeguare al proprio pubblico il linguaggio e i concetti.
Con ciò si soddisfa la richiesta civica e politica di una scienza pubblica e
non segreta.
Nell'ambito strettamente scientifico, la condivisione della conoscenza, delle procedure, e dei risultati
– mettendo tutti gli altri nelle condizioni di replicare esperimenti e
misurazioni – consente di valutare, collettivamente, la riproducibilità dei
risultati medesimi. Tale riproducibilità dà ai risultati
un’aura di universalità. Al contrario, la non
riproducibilità è un indizio molto serio contro l'attendibilità dei risultati.
In conclusione, la condivisione è un aspetto metodologico fondante
dell’universalità della conoscenza scientifica ed è anche una sorta di dovere
etico per chi fa scienza.
Vi è un atteggiamento
mentale, proprio di chi fa scienza, che appartiene senza dubbio al cosiddetto metodo
scientifico. Non si tratta tanto della pretesa di tendere alla
conoscenza di come è fatto “veramente” il mondo: questo è un atteggiamento
molto diffuso ma non fondamentale. L’atteggiamento cruciale che distingue chi
fa scienza da chi, pur pretendendo di fare scienza fa qualcos’altro, ha a che
fare con il rigore con cui si affrontano i problemi, un rigore che nel caso specifico della scienza è fortemente ancorato all’idea di dimostrabilità delle
affermazioni, dei risultati sperimentali, delle relazioni causali, e di tutti
quegli elementi che lo scienziato solitamente chiama “fatti”.
Apro una brevissima parentesi sul
problema dei cosiddetti “fatti”. Tanto lo scienziato che l’uomo della strada
chiama “fatto” un qualsiasi fenomeno evidente in sé. Una pietra che cade è un
fatto. Lo scienziato, però, diversamente dall’uomo della strada, definisce “fatto”
ogni fenomeno che, ai suoi occhi, risulta dimostrato e/o serialmente
riproducibile e/o che consente di fare predizioni basate proprio su quel
“fatto”. Tuttavia, in alcuni casi, i “fatti” altro non sono che
“interpretazioni” di un fenomeno che viene analizzato all’interno di un
paradigma, considerando il paradigma come il quadro di riferimento all’interno
del quale i fenomeni sono analizzati. All’interno del paradigma tolemaico, il
sole che gira attorno alla terra è un fatto evidente in sé, continuamente
riproducibile e che consente di fare predizioni. All’interno del paradigma
copernicano, la terra che gira attorno al sole è un “fatto” in sé del tutto
evidente, continuamente riproducibile e che consente di fare predizioni. È il paradigma di riferimento che
definisce il fenomeno e l’essenza dei fatti, i quali pertanto cessano di essere “fatti” per diventare – con sommo
piacere di Nietzsche – “interpretazioni”. Chiusa parentesi.
Tornando alla questione del “rigore”, non si può certo affermare che il filosofo o il logico non applichino abitualmente un estremo rigore
ai loro ragionamenti. Lo fanno eccome! Ma il loro rigore è una forma di consequenzialità
formale del ragionamento logico: ogni affermazione discende come conseguenza
logica di altre affermazioni che fungono da premessa, e ogni affermazione che
nasce come conseguenza di premesse precedenti diventa a sua volta premessa
delle conseguenze successive. Tutto ciò è perfettamente rigoroso ma non vi è
dimostrazione alcuna che ogni premessa e ogni conseguenza sia “vera” o
quantomeno empiricamente dimostrabile. Questo, vale a dire la dimostrazione empirica di
ogni affermazione, è invece ciò che lo scienziato esige in modo
assoluto e che fa parte costitutivamente del metodo scientifico. Mentre
il logico o il filosofo procedono per passi logici talora autoreferenziali, lo
scienziato esclude metodologicamente gli asserti che non riescono a trovare un
sostegno empirico di qualche genere, sperimentale o altro, o conferme da parte
di altri scienziati. In questo, il lavoro dello scienziato è metodologicamente
collettivo, mentre quello del logico o del filosofo non si esercita
obbligatoriamente come impresa collettiva, anzi, spesso si esercita come
impresa solitaria in opposizione ad altri filosofi.
Il logico e il filosofo, inoltre,
spesso intendono dimostrare una tesi, una tesi preconfezionata: per fare ciò, cercano
premesse e percorsi logici deduttivi attraverso cui la propria tesi possa essere
dimostrata. Si tratta in poche parole di un’operazione top-down: la tesi da
dimostrare sta in alto e la procedura per dimostrala discende dalla necessità
di dimostrare la tesi. Nelle scienze, la procedura è più frequentemente bottom-up.
Diceva Einstein: “Se sapessimo
(esattamente) quel che stiamo facendo, non si chiamerebbe ricerca”. La tesi
(ad esempio la legge generale che governa un fenomeno) sta alla fine del percorso, non
all’inizio: prima vengono le teorie, il ragionamento induttivo, gli
esperimenti, la condivisione, la riproducibilità delle esperienze, le
confutazioni o le conferme. Anche questo modo di procedere (strumento e stato
d’animo anch’esso) è parte del metodo scientifico.
Qualcuno afferma anche il
caso, la stocasticità che eccita la creatività, faccia parte del metodo
scientifico. Io non sono d’accordo. Se è vero che assai spesso il caso o
l’evento imprevisto suscita l’attenzione e, perché no, anche la creatività del
ricercatore, questo non può essere assunto a “metodo”, il quale è un qualcosa a cui
ci si affida, per l’appunto, metodologicamente. Ciò che deve essere assunto in
modo metodologico è una particolare
attenzione all’imprevisto, alla nota dissonante, a ciò che non quadra
perfettamente, all’eccezione che mette in crisi la regola. Questa particolare
attenzione-tensione, e non il caso, fa parte del metodo scientifico.
Requisito metodologico essenziale
per fare scienza è certamente il dubbio. Lo scienziato deve
necessariamente collocarsi tra coloro che dubitano. Per quanto gli scienziati
siano lusingati dall’idea di cercare la verità, essi devono porsi nella
posizione di chi metodologicamente dubita e metodologicamente rifiuta l’idea
stessa di verità. Il già citato Richard
Feynman afferma: “Nella scienza il dubbio è obbligatorio. È assolutamente necessario riconoscere che
l’incertezza gioca un ruolo fondamentale nel progresso scientifico. Per fare progredire
la conoscenza dobbiamo essere costantemente modesti e ammettere di non sapere.
Nulla è assolutamente certo al di là di ogni dubbio [...] A mano a mano che si acquisiscono nuove
informazioni nelle scienze, non si sta pian piano trovando la verità, si sta
solo stabilendo che questo o quello è più o meno probabile” (Il Piacere di scoprire. Adelphi 2002 –
Ed. originale: The Pleasure of Finding
Things Out, 2000).
Lo stesso concetto espresso da Feynman, lo ritroviamo nelle parole di
Piero Angela, il più famoso divulgatore di scienze del nostro paese: “In che modo dunque dovrebbe comportarsi lo
scienziato? A giudicare dalla pratica quotidiana in ambito scientifico, una
qualità essenziale è saper dubitare:
chi ha troppe certezze sulle proprie idee e sui propri risultati rischia infatti
di smarrirsi. Diversamente da quanto accade nelle ideologie e nelle religioni,
il punto di partenza è rovesciato: non esistono verità assolute, ma piccole
verità transitorie, da superare al più presto per raggiungerne altre, che
attendono di essere scoperte. I dati acquisiti sono sempre da considerarsi
provvisori” (da Piero Angela. Che cos’è la scienza. Vedi al LINK).
Piero Angela |
Se, da una parte, il metodo scientifico indica il dovere di saper dubitare, specularmente esso indica la necessità escludere la verità dalle proprie prospettive. Le affermazioni della scienza, per quanto tendano alla generalizzazione e alla universalità, debbono essere considerate sempre confutabili o verificabili, mai “vere”. Questo atteggiamento verso le conoscenze scientifiche deve essere preso come assunto metodologico anche perché le affermazioni della scienza si riferiscono ai modelli con cui la scienza rappresenta mentalmente la realtà, non necessariamente alla realtà stessa, qualunque cosa si voglia intendere con questo termine. A questo proposito, Bruno de Finetti (1906-1985), da perfetto scettico affermava che “il nostro spirito non può pensare nulla che non sia un suo pensiero, non può concepire nulla che non sia una sua concezione, non può ragionare di nulla che non sia un suo ragionamento…" (De Finetti B. Probabilismo. 1931: p. 87-88. Vedi al LINK). Questo pensiero ricalca alla perfezione quel che già Kant affermava riferendosi non soltanto alla rappresentazione mentale della realtà ma anche ai condizionamenti culturali, ai pre-convincimenti (pregiudizi), e ai punti di riferimento di ciascun pensatore: “la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno…” (dalla prefazione alla Critica della Ragion Pura).
A pagina 28 del suo bestseller “L’ordine del tempo”, il fisico Carlo Rovelli dà una fortissima coloritura a ciò che io chiamo propensione metodologica al dubbio: egli parla di propensione alla ribellione come possibile presupposto metodologico del fare scienza. Le sue parole sono: “Una radice profonda delle scienze è la ribellione: non accettare l’ordine delle cose presenti”. Il termine è un po’ forte, ma ci può stare.
A pagina 28 del suo bestseller “L’ordine del tempo”, il fisico Carlo Rovelli dà una fortissima coloritura a ciò che io chiamo propensione metodologica al dubbio: egli parla di propensione alla ribellione come possibile presupposto metodologico del fare scienza. Le sue parole sono: “Una radice profonda delle scienze è la ribellione: non accettare l’ordine delle cose presenti”. Il termine è un po’ forte, ma ci può stare.
Tutto ciò fa riferimento ai
meccanismi cognitivi universali cui tutti gli uomini attingono, scienziati e
non scienziati che siano. Tali meccanismi che includono, appunto, l’operare su
rappresentazioni mentali della realtà e riempire con pre-giudizi i vuoti tra un
“fatto” e l’altro, tra un’esperienza e l’altra, una dimostrazione e l’altra,
sono assunti nella loro universalità anche da Marcell Proust, che non è uno scienziato ma è pur sempre un
esploratore: un esploratore dell’umano pensare. In più punti della Recherce, egli sottolinea questi
aspetti: “è solo attraverso il pensiero che
prediamo possesso delle cose” (da: Albertina scomparsa);
“la stessa testimonianza dei sensi è
un’operazione dell’intelletto, in cui la convinzione crea l’evidenza” (da: La prigioniera); “abbiamo dell’universo solo visioni informi,
frammentarie, che completiamo con arbitrarie associazioni d’idee” (da: Albertina
scomparsa) (vedi al LINK).
Marcel Proust: esploratore |
Da scienziato e da pensatore qual
è, Carlo Rovelli, sempre nel suo L’ordine del tempo, oltre a usare parole
forti come ribellione, usa parole delicate come poesia, intendendo con
ciò “la capacità di saper vedere al di là
del visibile”. Questa caratteristica che la scienza condivide con l’arte è
una cosa molto diversa dalla propensione, di cui s’è detto sopra, a percepire
la nota dissonante o l’evento che non quadra. Qui si tratta di avere (o di
sviluppare) l’istinto di intravedere (almeno come possibilità teorica) che le
cose stiano in modo diverso da come appaiono o che dietro all’apparenza, ci
possono essere stratificazioni di “realtà” non ancora concepite e che, per
essere scoperte, devono essere prima immaginate. Di queste immagini del possibile
bisogna fare modelli e, poi, cercare di
dimostrare ciò che si crede di avere intuito. È ciò che Rovelli chiama “la
capacità di comprendere prima di vedere”.
La capacità di vedere al di là
del visibile, la poesia della scienza nel lessico di Carlo Rovelli, corrisponde
allo sguardo fiabesco del bambino il quale, giocando o ascoltando una storia,
vede mondi inaccessibili, che egli stesso costruisce e all’interno dei quali
egli agisce e scopre cose. Anche l’infantile sguardo fiabesco potrebbe
entrare a buon diritto tra i requisiti
metodologici del fare scienza. Questa impegnativa affermazione (che
sottoscrivo al cento per cento) viene dal premio Nobel (1903) Marie Curie: “Io sono tra quelli che pensano che le scienze possiedano una grande
bellezza. Uno scienziato nel suo laboratorio non è soltanto un tecnico: è anche
un bambino posto di fronte a fenomeni naturali che lo appassionano come un
racconto di fiabe”.
Lo sguardo incantato di Lisa Simpson |
Si sono fin qui visti svariati
componenti del cosiddetto metodo scientifico. Fra le tante cose che restano da
capire ce ne sono due che emergono con forza. La prima domanda che viene in
mente è: “questi requisiti – o presunti
tali – del metodo scientifico devono essere sempre tutti contemporaneamente
presenti per poter dire che quel che si sta facendo in un certo momento è
scienza e non altro?”. La domanda immediatamente successiva è: “il metodo scientifico, considerato come
sommatoria degli specifici requisiti sopra indicati, vale per tutte le
scienze o solo per alcune? Vale per le scienze esatte, per quelle naturali, per
quelle umane?”.
La seconda domanda – che ha a che fare col cosiddetto monismo
metodologico (uno stesso metodo per tutte le scienze) – è forse quella a cui si
può rispondere più facilmente. Una cosa che va immediatamente detta è che, formulata in questo modo, tale domanda mette in moto un circolo vizioso
da cui non si può uscire. Infatti, se chiamo “scienze” le diverse discipline,
do per scontato che esse applicano il metodo scientifico ma, per definire se una disciplina è una scienza, devo prima identificare il metodo
scientifico e dimostrare successivamente che quel metodo viene applicato in modo corretto in
quella specifica disciplina. Posta così com’è stata posta e senza aver risposto
alla prima domanda, la domanda sul monismo metodologico è priva di senso: è una
domanda sbagliata, una falsa domanda.
D'altro canto, rispondere alla prima domanda è
difficilissimo. Dei vari prerequisiti sopra indicati, alcuni sono o
possono sembrare antitetici: il riduzionismo metodologico non va tanto
d’accordo con una visione olistica; il ragionamento induttivo e quello
deduttivo sono spesso considerati antitetici; l’attenzione alle regolarità e
l’altrettanto necessaria attenzione alle irregolarità appaiono atteggiamenti
contrapposti. D’altra parte, tutto ciò è parte integrante e costitutiva del
lavoro, per esempio, del direttore
d’orchestra che deve stare attento al suono complessivo ma anche ai singoli
dettagli dei singoli strumenti da cui emerge il suono complessivo: il direttore d'orchestra costruisce un insieme derivato da una scomposizione. Ritengo che tutti gli
elementi sopra indicati (e forse anche altri) entrino a far parte costitutivamente del cosiddetto
metodo scientifico. Ma affermo anche che non
è necessario che tutti i detti elementi siano contemporaneamente presenti in ogni
momento, in ogni situazione e con la medesima valenza. C’è un tempo per la
costruzione del modello, per l’analisi dei dati, per la pianificazione e
l’esecuzione degli esperimenti; c’è il tempo della sintesi e c’è un tempo per
la comunicazione, la condivisione, la discussione ecc., ecc. L’agire scientifico
consta di momenti diversi e di menti diverse: l’agire scientifico, anche quello
individuale, è un’impresa collettiva e si riconosce in una metodologia da
mettere in atto collettivamente.
Detto ciò, bisogna vedere
disciplina per disciplina, se queste si sono costituite, vengono esercitate e
stanno progredendo in virtù dell’applicazione collettiva delle regole, delle
procedure, degli atteggiamenti mentali e dei prerequisiti di spirito sopra
elencati. Così facendo si potrà dire non tanto se la fisica o la storia siano
scienze, ma se quella teoria fisica o quella ricostruzione storica siano state
affrontate scientificamente. Naturalmente, ci sono discipline per le
quali certe categorizzazioni sono più facili, e altre per le quali sono
più difficili, se non quasi impossibili.
Ci sono poi asserzioni e
questioni di fondo da cui tutta questa diatriba nasce. Esistono questioni di “credibilità”, di “reputazione”, di “autorevolezza”
e, non ultime, di finanziamento. Se
una disciplina si può vestire con l’abito della scienza, è (o diventa, si
spaccia, o è percepita) come seria, autorevole, credibile, affidabile. Su di essa
si può contare. Se un’altra disciplina fa fatica a darsi una bella verniciata
di scientificità, per ciò stesso viene percepita come meno affidabile,
aleatoria, poco credibile. Difficile giustificare l’allocazione di risorse su
una disciplina poco credibile.
Per certi versi giustamente,
nella nostra società la scienza si è conquistata una nomea di efficacia e di
credibilità. I risultati sono davanti agli occhi di tutti. Per una naturale
contrapposizione delle cose, si dà però per scontato che se una procedura ha
qualche difficoltà a porsi in modo inequivocabile nell’ambito delle scienze,
allora questa disciplina è meno credibile e, sostanzialmente, meno importante. Il
problema non è nuovo. I positivisti del XIX secolo (ad esempio Auguste Comte e John Stuart Mill) sostennero che grazie alla logica induttiva certe
scienze (quelle esatte, che oggi chiamiamo “dure”) in quanto a potere cognitivo
e predittivo sono superiori alle scienze
“morali” (quelle che oggi chiamiamo scienze “molli”).
I dibattiti odierni non sembrano
aver fatto molta strada rispetto al XIX secolo. Di fatto, il dibattito si è
impantanato su alcune storture: storture
di sistema che hanno a che vedere con gli obiettivi e col modo di ricercare
e agire da parte degli operatori di questa o quella disciplina. Quanto agli obiettivi, non si può non
distinguere tra gli obiettivi di alcune branche del “sapere” (per esempio della
chimica, della farmacologia o della geologia) e gli obiettivi di altre branche
(per esempio del diritto, della storia o dell’economia). Non si può, come ci
dicevano a scuola, mescolare le pere con le mele. Ogni disciplina ha i propri
obiettivi, i propri metodi, le proprie caratteristiche costitutive. Pretendere
l’eguaglianza ontologica e metodologica tra discipline diverse equivale, secondo me, a mettere in atto del tutto
erroneamente un eccesso di egualitarismo
normativo: le differenze ci sono, sono importanti, vanno valorizzate e non vanno
svilite da preconcetti.
Egualitarismo |
L’altra stortura di sistema è voler
omologare a un non meglio precisato metodo scientifico i comportamenti e le
procedure di ricerca attinenti alle diverse discipline. Anche qui è evidente un
eccesso di egualitarismo normativo.
Stando così le cose, per una contrapposizione istintiva a tale egualitarismo
normativo, viene quasi da dirla con le parole del filosofo Ludwig Wittgenstein: “Il mio
scopo [...] è diverso da quello dell'uomo di scienza, il corso del mio pensiero
è diverso dal suo […] Non c'è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi”
(Ricerche filosofiche, 1930) o con le parole ancora più provocatorie di Paul Feyerabend: “l'anarchismo, pur non essendo forse la filosofia politica più
attraente, è senza dubbio una eccellente medicina per l'epistemologia e per la
filosofia della scienza” (Contro il metodo, 1975). Quello che conta è la
serietà degli operatori, la loro attitudine mentale a cercare, a controllare, a
verificare, a scegliere e verificare le fonti per tradurre, ove è possibile, la
descrizione in comprensione e in spiegazione, e farlo con metodi che
abbiano i requisiti e le caratteristiche generali di quelli sopra descritti.
L’egualitarismo normativo e il monismo
metodologico, oltre a non essere in grado di rendere evidente il discrimine
tra scienza e non scienza, nuocciono, soprattutto, alla scienza stessa che
trae, invece, sostentamento e vitalità da un molto più opportuno complementarismo metodologico.
Complementarismo metodologico |
A che cosa serve, poi, la domanda
sulla “vera” natura della scienza e, conseguentemente, sull’essenza del metodo
scientifico? Lo scopo utile della domanda è riuscire a distinguere l’erba buona
dalla gramigna costituita dalle cosiddette “pseudoscienze”, quelle attività che
si spacciano per scienze e millantano il rigore dell’agire scientifico per
vendere ai palati buoni false verità su cui speculare. Forse, però, per
identificare il millantatore pseudoscientifico è sufficiente una certa dose di
senso critico e non è strettamente
necessario ricorrere a precise, specifiche quanto improbabili definizioni di
scienza o di metodo scientifico. Succede però, che la più che giustificata lotta alla pseudoscienza fraudolenta finisca per sconfinare nell’identificazione di avversari sbagliati. In una lotta senza quartiere contro le pseudoscienze fraudolente, il nemico appare ovunque: nelle tradizioni, nelle superstizioni, nella filosofia, e anche nelle cosiddette scienze umane, colpevoli, queste, di non essere “scienze a tutti gli effetti” ma “scienziucole” che non rispettano tutti i criteri delle “scienze scienze”. Sulle tradizioni e sulle superstizioni non mi soffermo: sono argomenti troppo vasti e non direttamente correlati all’argomento che sto affrontando. Sulla filosofia e sulle scienze umane due parole sono necessarie. Quanto alla filosofia, la quale ovviamente non è per nulla esente da critiche, essa non deve essere vista come il male, il nemico della verità, per il solo fatto di basarsi più sulla logica che sui fatti sperimentali. La scienza, che un tempo si chiamava Filosofia della Natura, è una costola della filosofia. Esse sono parenti stretti: entrambe procedono secondo logica e confrontano modelli. Ad un certo punto, con i vari Bacone, Galileo, Cartesio, Newton ecc. una parte della filosofia ha posto al centro del proprio operare l’esperienza, la misurazione, la sperimentazione, mentre un’altra parte è rimasta ancorata ai modelli teorici, logici e metafisici cui era abituata. Non ostante queste importanti differenze, le due entità rimangono strutturalmente apparentate e il loro legame di fondo resta indissolubile. A mano a mano che la scienza è maturata come tale, la filosofia ha cominciato a discuterne i metodi, gli scopi e i risultati, formando la disciplina della filosofia della scienza, spina critica nel fianco della scienza. La filosofia, inoltre, attinge a piene mani dai risultati della scienza, per costruire nuovi modelli e nuove cattedrali speculative nell’ambito della filosofia teoretica, della filosofia morale e così via. Dal canto suo, talora senza averne piena consapevolezza, la scienza attinge dalla filosofia problemi e modelli teorici per decidere che cosa misurare, che cosa sottoporre a verifica o a sperimentazione. Quando la scienza smantella i vecchi paradigmi e ne costruisce di nuovi sa di offrire alla filosofia materiale da costruzioni per nuovi modelli e nuove speculazioni teoriche. Se queste basi, contrapporre scienza e filosofia è inutile oltre che sbagliato perché entrambe – anche se spesso lo negano – si sostengono e si aiutano, anche contrapponendosi, l’una con l’altra. Entrambe, alla fine, hanno l’ambizione di tendere al “vero” e si alimentano del “verosimile”.
Quanto alle scienze umane, già nel medioevo si faceva una netta distinzione tra le Arti del Quadrivio (che oggi chiameremo scienze esatte, o dure) e le Arti del Trivio (scienze umane, o molli). Ma nel medioevo (che non fu un’epoca culturalmente così buia come oggi spesso si vuol far credere), entrambe le arti facevano parte delle Arti Liberali, quelle arti (o scienze) indispensabili tutte per chi fosse impegnato in attività intellettuali. Sarebbe ridicolo affermare che tra le scienze esatte e quelle umane non vi sono sostanziali differenze costitutive, strutturali, normative e metodologiche. Ma sarebbe meno che intelligente, nel XXI secolo, negare alle scienze umane lo statuto di scienza. Questo non dipende dal fatto di poter applicare alle scienze umane tutti i metodi che vengono applicati alle scienze esatte, bensì dagli obiettivi (per esempio, quello della conoscenza e quello della sua trasmissione culturale), dal rigore metodologico, e dalla capacità di identificare i fatti rilevanti all’interno delle proprie discipline e così via. In definitiva, lo statuto di scienza, piuttosto che con specifici metodi applicativi, ha più a che fare con l’approccio mentale e col rigore del processo con cui gli argomenti vengono sottoposti a indagine. Quando si cercano differenze e si pongono distinguo, bisogna cercare di badare più alla sostanza che non alle parole con cui nominiamo detta sostanza. Scienza, in fondo, è una parola, ma quel che conta è la sostanza che ci sta dietro.
Quanto alle scienze umane, già nel medioevo si faceva una netta distinzione tra le Arti del Quadrivio (che oggi chiameremo scienze esatte, o dure) e le Arti del Trivio (scienze umane, o molli). Ma nel medioevo (che non fu un’epoca culturalmente così buia come oggi spesso si vuol far credere), entrambe le arti facevano parte delle Arti Liberali, quelle arti (o scienze) indispensabili tutte per chi fosse impegnato in attività intellettuali. Sarebbe ridicolo affermare che tra le scienze esatte e quelle umane non vi sono sostanziali differenze costitutive, strutturali, normative e metodologiche. Ma sarebbe meno che intelligente, nel XXI secolo, negare alle scienze umane lo statuto di scienza. Questo non dipende dal fatto di poter applicare alle scienze umane tutti i metodi che vengono applicati alle scienze esatte, bensì dagli obiettivi (per esempio, quello della conoscenza e quello della sua trasmissione culturale), dal rigore metodologico, e dalla capacità di identificare i fatti rilevanti all’interno delle proprie discipline e così via. In definitiva, lo statuto di scienza, piuttosto che con specifici metodi applicativi, ha più a che fare con l’approccio mentale e col rigore del processo con cui gli argomenti vengono sottoposti a indagine. Quando si cercano differenze e si pongono distinguo, bisogna cercare di badare più alla sostanza che non alle parole con cui nominiamo detta sostanza. Scienza, in fondo, è una parola, ma quel che conta è la sostanza che ci sta dietro.