La sera di martedì 27 dicembre, scorrendo i titoli della versione online del Corriere della Sera (www.corriere.it) levai un silente ma alto e sentito plauso al giornale medesimo per un breve editoriale – a firma “Redazione di Roma” – intitolato È morta VERA RUBIN, l’astronoma che scoprì la “materia oscura” (vedi a questo link).
L’articolo redazionale era breve e, in certo qual modo, perfetto. In poche frasi si diceva: a) chi fu Vera Rubin; b) Quale fu la scoperta che la rese famosa; c) che cos’è la “materia oscura” da lei scoperta e qual è l’importanza della scoperta in relazione a come riteniamo sia fatto l'universo. L’editoriale si concludeva col rammarico che la scienza ufficiale non le avesse assegnato un più che meritato premio Nobel, così come avvenne nel caso del Nobel negato alla biologa Rosalind Franklin per il contributo alla scoperta del DNA (ricordo ai lettori di questo blog il tributo che diedi a Rosalind Franklin nel post intitolato DNA: NUOVA ICONA DELLA CULTURA POP (vedi a questo link).
Una giovane Vera Rubin al telescopio (dal sito brainpickings.org) |
Quanto alla “materia
oscura”, l’articolo riferiva che “il nome
è dovuto al fatto che non emettendo alcuna radiazione elettromagnetica (come
luce o calore), la materia oscura non è visibile direttamente. La sua esistenza
è stata desunta come unica spiegazione possibile a fronte di alcuni fenomeni
osservati e studiati… La materia oscura rappresenta il 27% della massa
dell’intero universo”.
Quanto al premio Nobel che non vinse, l’articolo
affermava “nonostante abbia ottenuto
numerosi riconoscimenti, la Rubin non vinse mai il Nobel per la Fisica. Così
come non lo ottenne Rosalind Franklin la cui ricerca fu determinante per i
Nobel per la Medicina assegnati nel 1962 a James Watson, Francis Crick e
Maurice Wilkins, cui è stata riconosciuta la scoperta del DNA, il codice della
vita”.
Una giovane Rosalind Franklin (dal sito radionz.co.nz) |
Date le premesse, mi fece
piacere vedere sul giornale di carta in edicola il giorno successivo l’articolo
a firma Giovanni Caprara intitolato La Pioniera che scoprì l’esistenza della
materia oscura (vedi a questo link), un titolo un po’ diverso da quello dell’edizione online del giorno precedente.
Rispetto al breve
redazionale del giorno precedente, l’articolo di Giovanni Caprara è più corposo e racconta un po’ più in dettaglio
alcuni momenti salienti della carriera di Vera
Rubin come quello, per esempio, di essere stata la prima astronoma donna ad
essere ammessa all’Osservatorio di Monte
Palomar, a quel tempo l’osservatorio più potente del mondo. Nel corso
dell’articolo, si afferma anche che Vera Rubin “aveva confermato uno degli enigmi più importanti dell’universo,
l’esistenza della materia oscura”. A differenza dal titolo ove si
recita “scoprì l’esistenza”, qui si
recita “aveva confermato l’enigma”, e
si richiama il fatto che la presenza della materia oscura fosse stata postulata
nel 1933 dall’astrofisico svizzero Fritz
Zwicky. Detta così, sembra che Vera Rubin sia stata solo in grado di confermare un'ipotesi.
Confrontando il redazionale online con l’articolo di Giovanni Caprara, il
lettore del tutto ignorante di astrofisica come me ha l’impressione che
il contributo alla conoscenza dell’universo dato da Vera Rubin passi dallo statuto di contributo fondamentale
– descritto con le parole “l’astronoma che scoprì nel 1974 l’esistenza della materia oscura,
quella strana “cosa” ... senza la quale lo stesso non
esisterebbe”
– allo statuto di una più modesta riconfigurazione delle forze in campo, descritta
da Caprara con le parole “Il disegno del
cielo è cambiato e diventato più preciso grazie a Vera Rubin”.
Materia oscura: rappresentazione di fantasia (dal sito university.it) |
Ed eccomi arrivato, dunque, alla forte
delusione che mi ha provocato l’articolo di Caprara rispetto all’editoriale del
giorno precedente. In questo si faceva riferimento al Nobel negato (o meglio, mai assegnato) e al parallelismo con la
vicenda della povera Rosalind Franklin. Nell’articolo di Caprara si fa solo
riferimento al fatto che Vera Rubin lamentasse di una scarsa presenza delle
donne nella Accademia delle Scienze Americane. Una bella differenza di taglio
nei due articoli, anche tenendo conto che – nel caso si possano fare
dei confronti tra il caso della Rubin e quello della Franklin – secondo me il contributo cognitivo personale in ambito
astrofisico della Rubin è stato superiore quello della Franklin in ambito biologico.
In buona sostanza, il
taglio dato all’editoriale online aveva
suscitato in me – ignorante in materia – un forte interesse attorno alla vicenda e mi aveva stimolato a ragionarci su. La
stessa vicenda narrata da Giovanni
Caprara, più dettagliata e articolata e forse anche più aderente alla
realtà dei fatti, è risultata meno intrigante. La rimozione della questione di
genere – che nelle scienze è tutt’altro che irrilevante – ha sottratto alla notizia
uno spunto di ragionamento importante.
La prima domanda che
viene spontanea è chiedersi il motivo della rimozione della questione di genere:
é stata giudicata irrilevante o non pertinente alla commemorazione della
scienziata, oppure si è preferito ridurre di una tacca la rilevanza del
contributo scientifico della Rubin in modo da non sollevare scomode questioni
di genere?
Ci sono tre dettagli
dell’articolo di Caprara che mi
fanno propendere per la seconda ipotesi. Il primo è
l’utilizzo che egli fa della parola “pioniera”. La parola pioniere indica
chi arriva per primo, chi apre una strada e, in questo senso è perfettamente
adatto alla vicenda della Rubin.
Tuttavia, questa parola è più debole, secondo me, del riferimento alla scoperta
(come quando nel titolo si dice “scoprì”). La parola pioniere evoca
l’immagine di una persona che, da sola e lontana dagli altri, arriva per prima,
forse anche troppo presto rispetto agli altri. E se uno arriva troppo prima del tempo,
ciò potrebbe giustificare il fatto che il suo contributo non venga
adeguatamente riconosciuto (o premiato).
Il secondo dettaglio è
quello di avere “declassato” il contributo della Rubin dallo statuto di “scoperta”
allo statuto di “conferma” alle
ipotesi dell’astrofisico svizzero Zwichy.
Il terzo dettaglio è
quello di aver sostituito l’idea del Nobel
non attribuito all'astrofisica donna con l'idea molto più soft della banale lamentazione riguardante lo scarso posto occupato delle donne nelle scienze degli Stati
Uniti d’America.
Com’è come non è, se
l’editoriale online mi aveva stimolato a ragionare sulla cosa, le sottrazioni
apportate all’articolo del giorno successivo mi hanno ancor più sollecitato in
tal senso.
Sono andato a
documentarmi direttamente sul sito dell’Accademia
Svedese che assegna i premi Nobel (www.nobelprize.org). Nella
sezione riguardante le donne ho trovato i dati qui sotto riassunti (vai al sito):
Periodo
|
Donne premiate
|
1901-1920
|
4
|
1921-1940
|
5
|
1941-1960
|
3
|
1961-1980
|
7
|
1981-2000
|
11
|
2001-2015
|
19
|
Questi numeri assoluti
(che sono meno impressionanti dei dati percentuali) lasciano perplessi. A parte
il fatto che negli anni cinquanta non fu attribuito nessun premio Nobel al femminile, il fatto che tra il
2001 e il 2015 si siano dati alle donne un numero di premi Nobel solo cinque volte superiore a quelli assegnati tra il 1901 e il
1920 fa pensare male, se si tiene conto dello straordinario numero di ricercatrici donne
oggi in attività rispetto a quante ce n’erano nei primi anni del ‘900.
I dati raccolti dal sito
del giornale inglese The Telegraph sono ancora più impressionanti. Dall’articolo intitolato Vincitori del premio Nobel – Quante donne hanno vinto il premio?
(vai all’articolo originale) si evince che dal 1901 al
2015 ci sono stati 825 vincitori maschi e 49 vincitrici femmine (pari a 5.4%). Negli
anni ’50 è stata l’apoteosi maschile: nessun
premio Nobel è stato assegnato a quelle
stupide gonnelle. Dal 2010 al 2015, le vincitrici femmine sono state
l’11.1%, percentuale che è ancora straordinariamente poco rappresentativa
dell’effettivo numero di scienziate in attività.
Nella tabella qui sotto
riportata, che ho tratto dalla rivista Fortune semplificandola leggermente (vedi articolo originale),
riporto i dati scorporati per categoria.
Premi assegnati alle femmine per categoria 1901-2015
|
||
Categoria
|
n°
|
%
|
Chimica
|
4
|
2.33
|
Fisica
|
2
|
1.0
|
Economia
|
1
|
1.32
|
Letteratura
|
14
|
12.5
|
Pace
|
16
|
12.4
|
Medicina e Fisiologia
|
12
|
5.71
|
Come si può ben vedere,
le gonnelle – sembra dire la tabella – se
la cavano benino nello scrivere romanzi e nelle tecniche di riappacificazione
ma sono negate per la chimica, la fisica, e l’economia. Questi dati sembrano
voler confermare un cliché cui, però,
è difficile credere. Viene da farsi la classica domanda pleonastica: “Le cose stanno davvero
così o la causa di questo squilibrio va ricercata altrove?”.
Ovviamente, la causa va
ricercata altrove ma non è da ricercarsi esclusivamente nel bieco maschilismo
dominante. La faccenda sembra essere più complicata anche se non ci si può
nascondere il fatto che un forte pregiudizio favorevole agli uomini – in
termini economici, in termini di lobby, in termini politici ed accademici –
giochi un ruolo prevalente. Se si trattasse di scegliere unicamente la “migliore
persona dell’anno” in una certa disciplina, la cosa sarebbe più facile, anche se i pregiudizi favorevoli al maschio sarebbero forti in ogni caso. Ma non
si tratta di scegliere la migliore persona dell’anno. Per quanto riguarda le
scienze, si tratta di giudicare la strategicità della scoperta, il possibile
impatto scientifico ed economico a lungo termine, i dipartimenti e le
università coinvolte nelle ricerche e la continuità che tali dipartimenti hanno
dato e daranno in quel filone di ricerca, la disponibilità di sponsor politici
e industriali per lo sviluppo delle tecnologie collegate. In tutti questi
aspetti collaterali alla ricerca è noto che gli uomini ci sguazzano (e tessono
relazioni vincolanti) assai più volentieri che le donne (fino ad oggi).
Mary Ann Liebert ha una carriera tutta dedicata allo sviluppo delle riviste scientifiche e presiede il consiglio di amministrazione di un gruppo che pubblica ottanta
riviste di altissimo profilo nel campo della biologia, della
genetica e delle biotecnologie. Ha fondato e sostiene la Rosalind Franklin Society (vai al sito) che ha per obiettivo il sostegno alle giovani ricercatrici di talento. Secondo
Mary Ann Liebert, uno dei fattori – forse non quello determinante – è un
fattore psicologico che fa sì che, nei comitati che propongono e votano i
candidati ai premi Nobel, gli uomini
raramente propongano le donne e le donne, curiosamente, si comportino nello
stesso modo come se, psicologicamente, anche le donne fossero condizionate da
qualche forma di sessismo che privilegia gli uomini.
Lo sbilanciamento delle
candidature è anche dato dalla composizione delle commissioni che selezionano i
candidati. Un esempio per tutti è quello della commissione per le candidature
che riguardano la fisica. Ne fanno parte:
- Membri svedesi e non svedesi appartenenti alla Reale Accademia Svedese delle Scienze;
- Pregressi vincitori del premio Nobel in Fisica;
- Titolari della cattedra di Fisica delle Università di Svezia, Danimarca, Finlandia; Islanda, Norvegia, dell’Istituto Karolinska di Stoccolma, e di almeno sei università di altri paesi bilanciati per area geopolitica e selezionati dalla Accademia delle Scienze Svedese;
- Altri eventuali scienziati di spicco che l’Accademia delle Scienze ritenesse utile invitare.
Benché si stia qui
parlando prevalentemente di istituzioni del nord Europa dove la teorica parità
tra i sessi non è in discussione, non ci si può tappare gli occhi di fronte al
fatto che la maggioranza di Vincitori di premi
Nobel, di membri della Accademia delle Scienze e di titolari di Cattedra o
di Dipartimento sono di sesso maschile.
Con ciò si evince che,
anche in assenza di sotterfugi e di manovre poco chiare, ci sono sufficienti
motivi tecnici, politici e psicologici che determinano un forte squilibrio di
genere nell’assegnazione dei premi Nobel.
Detto questo, non si capisce perché non se ne possa parlare serenamente. Non si
capisce perché un articolo nel quale si faceva cenno al tema degli squilibri di genere, dalla sera alla mattina si dovesse autocensurare cambiando faccia e natura, quasi che ci si vergognasse di
parlare di un tema che richiederebbe, invece, un dibattito serio, aperto e sereno.