Nel colmo dell’estate, l’articolo di Edoardo Boncinelli PER MIGLIORARCI SERVE UNA MUTAZIONE (La Lettura, #245 del 7 agosto 2016) mi ha riscosso dal consueto torpore agostano. L’autore – genetista e sapiente divulgatore – evoca la possibilità (o la minaccia dal vago sapore eugenetico) 1 che le capacità scientifiche cui l’uomo è pervenuto possano presto consentirgli di intervenire direttamente sul proprio genoma 2 per migliorare non solo il fisico e la salute, ma anche la sfera morale e i comportamenti individuali. Il vago sapore di positivistico ottimismo di questo articolo mi lascia un po’ perplesso. Non sono del tutto convinto che “migliorare” la sfera morale e i comportamenti per mezzo di “ritocchi del genoma” (mutazioni artificiali) possa essere considerato un progresso e mi spaventa l’assenza di dubbi in chi presumesse, eventualmente, di voler artificialmente dirigere l’evoluzione biologica del genere umano.
1 L'eugenetica era una teoria e una
prassi che aveva l'obiettivo del miglioramento della specie umana (in taluni
casi della razza) attraverso la selezione delle caratteristiche ereditarie:
oggi potrebbe riprendere vigore attraverso l'azione diretta sul genoma.
2 Per genoma si intende l’insieme delle informazioni genetiche contenute nelle nostre cellule.
L’incipit
dell’articolo è una sorta di “universale”: è una domanda che tutti ci siamo
posti più volte senza arrivare, però, a una risposta soddisfacente e nemmeno incoraggiante.
Si chiede Boncinelli: «C’è stato progresso nella nostra storia? E perché
succedono ancora tante storie brutte? Se è esistito un progresso, continua
anche oggi oppure si è fermato?». Lo sconcerto che condividiamo con Boncinelli
viene dal constatare un progresso tecnologico e materiale travolgente (ma non equamente
distribuito nel mondo) contrapposto ad aspetti etici e comportamentali che
sembrano essere progrediti poco negli ultimi diecimila anni. Ciò che è
culturale (arti, scienze, tecnologie) avanza a velocità crescente. Ciò che è
istintivo e comportamentale – in entrambe le categorie del “bene” e del “male”,
vale a dire nei termini dell’amore e della solidarietà come nei termini
dell’odio e della violenza – si evolve, se si evolve, in modo quasi impercettibile.
Giustamente,
Boncinelli sottolinea che è un errore mescolare e trattare congiuntamente il
progresso culturale e quello morale. Sono due cose molto diverse,
afferma Boncinelli. Ed è vero: è un errore semantico oltre che concettuale
trattare questi due argomenti usando un unico termine, “progresso”. Ulteriore
errore è usare i termini “progresso” ed “evoluzione” come si trattasse di
sinonimi; come se indicassero la stessa linea temporale; come se ambissero ai medesimi
risultati da perseguire lungo tale linea temporale e come se fossero soggetti
alle medesime contingenze. Boncinelli sottolinea la diversa natura
dell’evoluzione culturale rispetto all’evoluzione morale: la prima è di natura
esterna, è collettiva e trans-temporale; la seconda è di natura interna, è
individuale ed è strettamente legata al tempo dell’individuo stesso. Qui, Boncinelli
sembra legare il comportamento individuale più alla sfera biologica che a
quella culturale, quasi disconoscendo il fatto che anche l’evoluzione culturale
è in stretta connessione con le strutture bio-cognitive dell’uomo. In queste
strutture si iscrive tanto ciò che viene dall’interno (ciò che si eredita dai
progenitori e ciò che deriva dall’esperienza) quanto ciò che viene dall’esterno
(ciò che si accumula fuori di noi e che assorbiamo – quando lo assorbiamo – culturalmente). Se fossimo formiche, tutto ciò di cui avremmo bisogno
per comportarci nel modo “giusto” è già iscritto nelle nostre rigide
strutture bio-cognitive. Se fossimo merli, il nostro comportamento, in parte
appreso per imitazione dei nostri genitori, richiederebbe che le informazioni
che provengono dall’esterno si iscrivessero nelle nostre strutture
bio-cognitive accanto a quelle ereditarie e a quelle di provenienza interna.
Essendo esseri umani dotati di autocoscienza e – così vogliamo credere – di
libero arbitrio e di senso morale, il nostro comportamento richiede che ciò che
arriva dall’esterno e ciò che arriva dall’interno si iscriva nelle strutture
bio-cognitive in un modo tanto complesso e multidimensionale da non avere la
più pallida idea di come ciò possa realizzarsi. Ogni sistema esplicativo che
voglia troppo semplificare i ruoli cognitivi sottesi al comportamento umano è
necessariamente riduttivo. Leggendo l’articolo di Boncinelli ho avuto nella
pancia una spiacevole sensazione di semplificazione, sebbene mi renda conto che,
nelle striminzite colonne disponibili sulle pagine di un giornale di grande
tiratura, certi argomenti non possono essere trattati altrimenti. È la stessa
sensazione di semplificazione e di incompletezza che sento quando mi imbatto
nei modelli comportamentali come quelli descritti dagli psicologi Leda Cosmides e John Tooby
oppure da Paul MacLean. I primi sono
i fondatori di quella corrente di pensiero chiamata Psicologia Evoluzionistica tra le cui affermazioni c’è quella che
l’uomo contemporaneo è, e si comporta come, un cavernicolo con giacca e
cravatta (con ciò affermando che la cultura determina aspetti sociali formali,
mentre il comportamento individuale rimane istintivo come nell’uomo del
pleiocene). Da parte sua, il neuropsicologo Paul MacLean ha sostenuto una
teoria molto in voga negli anni settanta del secolo scorso, quella del cervello
tripartito, vale a dire quella della sovrapposizione, nel cervello umano, delle
strutture e delle funzioni filogeneticamente ereditate dai nostri più antichi
progenitori. Secondo MacLean, i nostri diversi comportamenti individuali e
collettivi sono determinati dalle strutture sovrapposte dei cervelli che
abbiamo ereditato dai rettili (istinti innati) e dai primi mammiferi (emozioni),
sui quali si è sovrapposto il neocervello dei primati e di noi umani
(razionalità).
Queste affascinanti
e suggestive teorie sembrano però non tenere alcun conto di altre osservazioni,
per esempio quelle di Aleksandr Lurija
e di vari ricercatori più moderni tra i quali, per esempio, l’antropologo Robin Dunbar, riguardanti il fatto che gli
influssi esterni storico-culturali sono efficaci nel plasmare le strutture e le
funzioni cognitive (attenzione, percezione, linguaggio, ecc.) che giocano ruoli
determinanti nell’influenzare i comportamenti individuali e collettivi.
In parole povere,
le questioni che si agitano nel cervello dell’uomo e che determinano il
paradosso dell’apparente inconciliabilità tra evoluzione tecnica ed evoluzione
morale sono assai più complesse di quelle che traspaiono dall’articolo di
Boncinelli.
Alla fine dell’articolo,
Boncinelli ci informa sugli effetti positivi che mutazioni naturali o
artificiali potrebbero produrre, nel genere umano, sulla direzione e sulla
velocità dell’evoluzione di aspetti biologici e comportamentali. Scrive
Boncinelli: «Esiste la possibilità di modificare in laboratorio parte del
nostro genoma, indirizzando così da fuori, per così dire, la nostra evoluzione
biologica. Saremo così la prima specie che modifica il corso della propria
evoluzione biologica, utilizzando le conoscenze scientifiche accumulate grazie
alla propria evoluzione culturale… Si farà? Non si farà? Io sono fra quelli che
pensano che si farà presto, ma il futuro riposa sulle ginocchia di Giove». Così,
Boncinelli, il quale, subito dopo queste parole, frena, accennando a
riflessioni epistemologiche sul che cosa significa “migliorarci” e sull’opportunità
o meno di applicarci per tentare di farlo usando, affermo io, questi metodi estremi. Tale ottimismo positivistico sulle possibilità
della scienza di intervenire – e anche presto – sul miglioramento genetico
dell’uomo spalanca di fronte ai miei occhi allucinanti scenari eugenetici e
distopici frutto di un modo di fare e di pensare che, nella fantasia, è stato il nutrimento di molta letteratura fantascientifica ma che, nei fatti, ha prodotto devianze e sofferenze indicibili, i casi di Mengele e di Lysenko
essendo solo due dei più noti spin-off.
Raccomanderei prudenza, molta prudenza, ricordando che l’evoluzione, a dispetto
di quel che pensava Lysenko, è un processo di transizioni spontanee da uno
stato a un altro stato e che sono le contingenze a determinarne la direzione. Questa direzione non può essere – non è mai stata prima – orientata ed eterodiretta. Tentare di farlo è operazione imprudente.
Per approfondire.
Ho estremamente
semplificato, al limite della banalizzazione, sia la Psicologia Evoluzionistica
che la Teoria del Cervello Tripartito di Paul MacLean. Per approfondire, rimando
a The Theoretical Foundations of Evolutionary Psychology di Tooby e Cosmides (una recente monografia in inglese) e a Evoluzione
del cervello e comportamento umano: studi sul cervello trino di Paul
MacLean (fuori catalogo; presente in molte biblioteche pubbliche). Di Alexandr
Lurija consiglio: Un mondo perduto e
ritrovato e La storia sociale dei
processi cognitivi, mentre di Robin Dunbar
consiglio: L'evoluzione
del cervello sociale e il più
discorsivo Di quanti amici abbiamo
bisogno?
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