Il dibattito parlamentare sulle unioni civili (Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili) ha scatenato aspra polemica a livello politico ma – mi sembra – un dibattito molto meno aspro a livello sociale.
A causa della mia età, ricordo molto bene la dimensione del dibattito sociale (tra le persone vere) quando si discuteva di divorzio o di aborto. Nell’attuale dibattito sulle unioni civili non ho apprezzato nemmeno l’ombra dell’ampiezza di quel coinvolgimento sociale. Questo mi ha sorpreso ma mi ha fatto anche pensare che, forse, stiamo diventando un paese moderno ed europeo, con tutto ciò che di positivo e di negativo questo fatto comporta.
Mi accingo ad affrontare un tema troppo complesso perché si possa pensare di affrontarlo nello spazio stringato di un blog. Mi limito a pochi ed essenziali aspetti, sotto lo stimolo provocato dall’articolo di Claudio Magris intitolato Il bambino non è un oggetto ma un soggetto di diritti e comparso sul Corriere della Sera del 16 marzo 2016.
Benché il titolo faccia
riferimento ai diritti del bambino, l’articolo di Magris esplora aspetti
complicati (dal punto di vista giuridico, filosofico e umano) dei diritti
riguardanti la maternità e la paternità degli esseri adulti: per la precisione,
riguarda l’ammissibilità di tradurre in diritto un desiderio quando il costume
da una parte e il progresso scientifico dall’altra, creano le condizioni per
fare cose che un tempo non ci si sognava nemmeno di poter fare. Il problema
riguarda, ovviamente, l’adozione di
bambini da parte di coppie omosessuali e la faccenda del cosiddetto utero in affitto. Le faccende corrono
su binari separati e paralleli: da una parte c’è il costume (le abitudini, la
cultura e i limiti che cultura, abitudini e leggi impongono ai comportamenti);
dall’altra, ci sono i progressi biotech che consentono di
supplire ai cosiddetti limiti imposti dalla natura (tema, quello dei limiti,
estremamente complesso dal punto filosofico perché è la natura stessa dell’uomo
che lo spinge a superare i limiti).
Magris si domanda: «Possono tutti i desideri essere
riconosciuti per legge?». Alla propria domanda, Magris non risponde con un
chiaro e forte «NO». Per quanto implicita, la sua risposta è comunque «No, non
è possibile riconoscere per legge ogni possibile desiderio».
In linea di massima, non
si può non essere d’accordo con una simile affermazione. Tuttavia, ho trovato
deboli e pretestuose le motivazioni addotte da Magris alle sue conclusioni
riferite ai desideri delle coppie omosessuali e, soprattutto, non ho trovato
discussi gli argomenti sociali e filosofici fondamentali nella questione che
riguarda libertà, desideri, diritti.
Innanzi tutto mi sarebbe parsa opportuna una parola - assente nell'articolo di Magris - sul concetto stesso di "diritto". Si sarebbe dovuto dire che non esistono diritti naturali.
Tutto ciò che chiamiamo "diritti" nasce da "desideri" che hanno dovuto attraversare fasi di lotta, conquista e sudata condivisione prima di poter accedere allo status di "diritto". Se è pur vero che non tutti i desideri possono trasformarsi in diritti, va rimarcato che i desideri normati dalla disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili stanno attraversando la fase che implica lotta, conquista e - per l'appunto - sudata condivisione.
Marc Chagall - Due piccioni, 1925 |
Non voglio polemizzare
con le legittime opinioni di Magris ma quando afferma, per esempio, che «un figlio nasce da un uomo e una donna e la sua maturazione verosimilmente
si arricchisce molto proprio dalla diversità di queste figure», mi sembra che egli sottovaluti deliberatamente due
punti molto rilevanti. Il primo è che - oggi - un figlio può anche nascere da
un ovulo, preventivamente fecondato da uno spermatozoo, e ospitato in un
utero. In questo caso, il ruolo dell’uomo (inteso come maschio) si riduce, al limite, a quella di fornitore di un unico e minuscolo spermatozoo (in futuro - grazie al biotech - anche questo ultimo contributo maschile potrebbe non essere più necessario). Ciò non toglie che il bambino
che nasce da una combinazione tecnologicamente assistita debba avere gli stessi
diritti di un bambino fabbricato in modo tradizionale. E qui si arriva al
secondo punto: ammesso pure che lo sviluppo psico-cognitivo e affettivo del
bambino possa avvantaggiarsi della diversità delle figure genitoriali, chi
stabilisce se due genitori dello stesso sesso - che sono comunque due persone diverse - non rappresentino
un sufficiente elemento di “varietà” per lo sviluppo del bambino? Se questo
fattore fosse davvero così essenziale, come farebbero i figli che perdono un
genitore o entrambi? Come fanno i bambini i cui genitori - per ragioni varie, magari emigranti - affidano i propri figli a zii, nonni, cugini? Si potrebbe anche dire, allora, che i figli allevati in una comune
hippy, o in un Kolchoz, o in un Kibbutz, con un insieme variegato e condiviso di figure genitoriali, dovrebbero godere di eccezionali possibilità di sviluppo psico-cognitivo e affettivo.
Magris richiama il
concetto che il diritto debba tutelare tanto l’individuo quanto la
collettività. Qui Magris sfiora un tema importantissimo ma poi lo svolge in
modo troppo vago e intellettualistico, senza affrontare il toro per le corna,
vale a dire senza affrontare la questione più importante: è più importante l’individuo o la
società? In caso di conflitto tra le esigenze individuali e quelle della
collettività, chi deve avere la precedenza? Io non ho dubbi: in caso di
conflitto tra individuo e collettività, bisogna dare la precedenza alle
esigenze della collettività. Questo atteggiamento mentale dovrebbe essere utilizzato per dirigere e non per ostacolare l'evoluzione dei costumi sociali. L’evolversi delle culture e il progredire delle capacità
tecnologiche possono rendere “desiderabili” comportamenti nuovi. In questi
casi, la collettività nel suo complesso deve giudicare se, come, quando, e fino
a che punto, il mutare dei desideri individuali è compatibile con il mutare degli orizzonti e le prospettive della società: è
all’interfaccia tra queste tensioni che si evolve la morale e il diritto deve tener dietro.
Su questi temi Magris scivola via e pone la domanda in termini vagamente romantici, termini che non mi
sembrano appropriati ad un conflitto tra modi diversi di guardare al mutare delle sensibilità in seno alla collettività. Dice Magris: «Ogni desiderio, se è forte, chiede, esige di essere appagato, e in questa
tensione, qualsiasi sia il desiderio, c’è uno struggimento, una nostalgia
dolorosa che sono parte essenziale della nostra persona. Possono tutti essere
riconosciuti per legge?». Porre la questione sul piano
emotivo non mi pare il modo giusto di affrontare il tema. Richiamarsi, poi, alla ricaduta
antropologica, come fa Magris, è giusto: «Il diritto… non può disinteressarsi delle ricadute di una legge sull’antropologia civile ossia sui fondamenti che tengono insieme una comunità», ma forse, allora, sarebbe stato
opportuno utilizzare strumenti analitici dell'antropologia in luogo di una
adesione emotiva alla “tradizione”.
E infine, una delle
frasi conclusive dell’articolo di Magris mi ha un po’ spiazzato: «Ho conosciuto e conosco omosessuali bravi genitori del loro figlio – avuto da
una donna, non da un utero affittato». Mi sono venute in mente frasi che ogni tanto si sentono, qui al nord: «Io non sono razzista, conosco
meridionali bravissimi…». Quanto all’inciso: « – avuto da
una donna, non da un utero affittato», mi sarebbe piaciuto capire meglio a chi potrebbe
appartenere quell’utero e a quali condizioni umane e giuridiche si adatta quella locuzione.
Le società vanno incontro a cambiamenti continui. Le spinte al cambiamento possono venire dall'interno stesso della società o dall'esterno. Arroccarsi sulle posizioni tradizionali e avere paura del
cambiamento è naturale. Tuttavia, per capire e per gestire il cambiamento (e
per non subirlo passivamente) c’è bisogno di “immaginazione”, c’è bisogno di
saper immaginare il futuro. A proposito dei cambiamenti sociali conseguenti ai
fenomeni migratori, l’antropologo indo-americano Arjun Appadurai afferma: «L’immaginazione è oggi essenziale a
tutte le forme di azione; è in sé un fatto sociale, un elemento cardine del
nuovo ordine globale» (Modernità in Polvere. Raffaello Cortina, Milano
2012: p.44). Potremmo utilizzarne un
pizzico per guardare ai mutamenti in corso.
Nessun commento:
Posta un commento