martedì 16 luglio 2019

RAZZA E SCIENZIATI - Quando la scienza sposa cause sbagliate


Esattamente ottantuno anni fa, il 14 luglio 1938, Il Giornale d’Italia pubblicava il Manifesto della Razza. Era l’inizio di una strategia studiata a tavolino per diffondere un forte sentimento di Italianità che avrebbe dovuto sostenere i tempi bui, quelli della guerra, che si stavano avvicinando a passi veloci. 

Il tema della razza fa il suo esordio in Italia
Il manifesto era il primo momento di una strategia di coesione nazionale necessaria a far sopportare i sacrifici che sarebbero stati richiesti per fare di nuovo Grande l’Italia (Donald Trump, come si vede, non ha inventato niente). Dopo pochi giorni, il 5 agosto, si trovava in edicola il primo numero della rivista La Difesa della Razza. Il 6 ottobre la Dichiarazione sulla Razza fu votata dal Gran Consiglio del Fascismo e le Leggi Razziali furono emanate il 15 novembre.
La propaganda fa della razza un problema nazionale
Scienziati e studiosi italiani furono i complici dell’operazione politica. Infatti, il Manifesto della Razza portava in calce la firma di autorevoli e meno autorevoli studiosi che servivano a rendere credibile e scientificamente dimostrato il concetto di Razza, un concetto cui la propaganda si sarebbe preoccupata di associare in modo inestricabile i concetti di “inferiorità” e di “superiorità”, i cui destinatari erano chiaramente gli Ebrei da una parte e gli Italiani dall’altra.
Il progetto era stato abilmente orchestrato dai vertici del Partito Nazionale Fascista, tra cui Achille Starace (Segretario del Partito) e Dino Alfieri (Ministro della Cultura Popolare). Essi affidarono a un gruppo di “scienziati” il compito di redigere un Manifesto dotato di “credibilità scientifica” e che potesse avere facile presa sugli ingenui animi italiani. Preferisco consegnare al dimenticatoio i nomi dei dieci accademici che si sono assunti la responsabilità di sottoscrivere il documento. Tra loro, docenti e assistenti universitari di varia formazione: patologi, antropologi, zoologi, fisiologi, pediatri, neuropsichiatri: uno di loro ricopriva l’incarico di direttore dell'Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Il Manifesto adottava criteri eterogenei per definire le razze: demografici, culturali, antropometrici e, soprattutto, biologici: questi ultimi avevano la pretesa di esser i più “obiettivi e scientificamente dimostrabili”. I criteri del cosiddetto Razzismo Biologico, già inconsistenti allora, nei decenni successivi si sarebbero dimostrati del tutto privi di fondatezza. La pochezza di questi cosiddetti criteri scientifici va individuata soprattutto nell'utilizzo ideologico dei criteri medesimi, ove i pregiudizi anticipavano le prove (o le pseudoprove), tradendo in tal modo il rigore e il senso del "metodo scientifico". La pretesa era quella di anteporre l’ideologia al riscontro scientifico e di addurre elementi riguardanti la varietà biologica fra le popolazioni (varietà che è elemento costitutivo in ogni organismo vivente) come elemento probante di pretese differenze di qualità, associando a tali differenze trattamenti differenziati in merito ai diritti fondamentali degli esseri umani. In poche parole, si tratta di un metodo menzognero e di un crimine ideologico contro l’umanità, niente di più niente di meno. Come se non bastasse, gli accademici italiani non si erano avvalsi di ricerche proprie, ma si erano rifatti alle opere di antropologi tedeschi (Hans Günther e Ludwig Clauss) i quali si erano messi di impegno nel tentativo, anch’esso menzognero, di identificare scientificamente differenze tra i tedeschi e altre popolazioni pregiudizialmente definite come “inferiori”.

Pensavamo che sotto i ponti fosse passata sufficiente acqua per confinare queste idee nella discarica delle idee nocive e dei metodi traditi. Invece, a varie riprese, tutto ciò riemerge dal fondo, sollevato e riportato in superficie dai moti convettivi di un razzismo ideologico destinato a sopravvivere alle epoche.

Discarica per le idee nocive
Nel 2007, James Watson, uno dei destinatari del premio Nobel per la scoperta della struttura del DNA, aveva dichiarato che gli africani sono “geneticamente” meno intelligenti di altre razze. Watson si riferiva al fatto che il QI (quoziente intellettivo) misurato in un campione di africani risultava più basso di quello misurato in un campione di americani. Poiché le due popolazioni differiscono anche per assetto genico, Watson aveva legato in maniera causale le due cose ed era balzato alla conclusione: i neri sono geneticamente meno intelligenti degli americani. James Watson rimane oggi della sua idea, nonostante il ricercatore neozelandese James Flynn abbia dimostrato che lo sviluppo socioeconomico delle popolazioni cui era stato attribuito un basso QI ha fatto sì che quelle stesse popolazioni, col tempo, abbiano raggiunto gli stessi punteggi di QI delle popolazioni progredite, dimostrando che non esistono chiare e dirette associazioni fra genetica e quoziente intellettivo. Questa dimostrazione ha fatto sì che il guadagno di Quoziente Intellettivo in relazione allo sviluppo socioeconomico ha preso il nome di Effetto Flynn. [1]

Il razzismo scientifico che risorge dalle sue ceneri come razzismo genetico
Ma la questione non è finita qui e i rigurgiti di razzismo biologico, o di razzismo genetico, come l’araba fenice risorgono dalle proprie ceneri.
In un suo recente scritto sulla brutta aria che tira in fatto di libertà d’espressione (Effetto Trump) in alcune Università americane, Francesco Ranci – sociologo che di quegli ambienti se ne intende – cita le affermazioni di Robert Plomin, professore di Genetica Comportamentale presso il King’s College di Londra, il quale, buon ultimo, afferma che molti geni, forse migliaia – ciascuno di modesto effetto individuale – possono essere coinvolti nel predeterminare l’intelligenza”. In due recenti pubblicazioni, egli avrebbe scoperto 1016 geni correlati all’intelligenza (definita come capacità di imparare, ragionare e risolvere problemi), corrispondenti a qualcosa come il 20-50% dell’intelligenza ereditabile.[2]
Anche Plomin, come quelli che prima di lui hanno tradito il metodo scientifico, ha fatto "uno più uno uguale a due", confrontando l’assetto genico di popolazioni diverse non solo per indice intellettivo ma anche per condizioni sociali, culturali, economiche. Tutto ciò, senza considerare il fatto che il QI è un indice tipicamente elaborato per misurare capacità specifiche e coerenti con le esigenze della cultura che lo ha messo a punto. Tipicamente, il QI dovrebbe misurare lo sviluppo cognitivo di un individuo in confronto ad altri individui appartenenti alla stessa comunità, vale a dire immersi in un contesto informativo coerente. Utilizzarlo per confrontare contesti culturali differenti è un nonsenso metodologico.


Vale la pena di ricordare che già nel 1981 il famoso biologo evoluzionista Stephen J. Gould aveva pubblicato un libro, Intelligenza e Pregiudizio: contro i fondamenti scientifici del razzismo (il Saggiatore, 2006), in cui definiva razzismo scientifico l’uso strumentale della valutazione del QI in popolazioni eterogenee e differenti dal punto di vista socio-economico.

Che dire di questa araba fenice che ogni tanto riemerge dalle proprie ceneri? Chi voleva rendere l’Italia Grande, chi vuole rendere di nuovo l’America Grande, e tutti gli epigoni di uno scientismo asservito alle peggiori ideologie, altro non fanno che dimostrare la grandezza della propria inconsistenza scientifica e morale.

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[1] James R. Flynn. Tethering the elephant: Capital cases, IQ, and the Flynn effectPsychology, Public Policy, and Law, 2006, 12: 170-189.
[2] Savage EJ et al.Genome-wide association meta-analysis in 269,867 individuals identifies new genetic and functional links to intelligenceNature Genetics 2018; 50: 912–919; Plomin R. The new genetics of intelligence. Nature Reviews Genetics 2018; 19: 148–159.


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