UN IMROPRIO USO DELLA SCIENZA PER GIUSTIFICARE I PROPRI PREGIUDIZI.
Questo l'inesorabile giudizio affibbiato a James Watson (ex-premio Nobel per la scoperta della struttura del DNA) da ABC News, giornale online australiano.
Sulla pochezza morale dello scienziato americano mi sono già ampiamente espresso in precedenza: vedi La Doppia Elica e l'Ultima Omissione di Watson e Crick (LINK) e Rosalind Franklin è in scena (LINK).
Oggi, il vecchio biologo
americano (90 anni) torna all’onore delle cronache insistendo nel giudicare i
neri meno intelligenti dei bianchi e basando il proprio assunto su basi
genetiche da tutti negate. Nel caso di Watson, dunque, il pregiudizio razziale
ha avuto la meglio sulle evidenze scientifiche. La comunità scientifica si è
trovata compatta e il premio Nobel conferitogli nel 1962 gli è stato revocato. Ritengo
che tale decisione sia stata tardiva e che avrebbe dovuto essere stata adottata
nel momento in cui sono emerse le prove che la scoperta sulla struttura a
doppia elica del DNA era stata fatta anche col contributo di altri (Rosalind Franklin, Jamesl Creeth, Erwin
Chargaff), mai nominati e nemmeno ringraziati al momento dell’assegnazione
dell’ambito premio.
Su questo fatto hanno scritto in
molti. Fra tutti, cito senz’altro il post di Andrea Bellelli, Professore di Biochimica all’Università La
Sapienza, intitolato “Il caso
James Watson e la psiche degli scienziati che si lanciano in affermazioni
stupide” al quale rimando senz’altro (LINK), invitando tutti a leggere l’articolo
col quale concordo in tutto e per tutto.
Il tema della superiorità dei
bianchi sui neri e quello della maggiore civiltà dei bianchi rispetto alle popolazioni
cosiddette “selvagge” ha una lunga storia. A complemento della invereconda
faccenda di James Watson mi piace qui riportare il passo conclusivo di L’Arcipelago
Malese, il dettagliato resoconto (naturalistico ma non solo) della
permanenza di otto anni nel suddetto arcipelago di Alfred Russel Wallace, coautore con Darwin
della Teoria della Selezione Naturale. Pubblicate nel 1869, queste parole – pur
nelle mutate condizioni socioeconomiche rispetto all’Ottocento – conservano
ancora il loro pregnante significato.
Credo che l’uomo civilizzato
possa imparare qualcosa dal selvaggio. Molti fra noi credono che, in quanto
primi tra le razze, noi siamo progrediti e stiamo ancora progredendo. Deve
esserci quindi uno stato di perfezione massima – una sorta di punto d’arrivo –
che non potremo mai raggiungere ma verso il quale il continuo progresso ci farà
appropinquare sempre più. Ma qual è quello stato sociale idealmente perfetto
verso il quale tendiamo? I nostri migliori pensatori affermano che sia uno
stato nel quale la libertà individuale e l’autogoverno, reso possibile da uno
sviluppo equanime in cui il nostro istinto morale, le nostre capacità
intellettive, e la componente fisica della nostra natura umana – uno stato in
cui ciascuno di noi, conoscendo ciò che è giusto e allo stesso tempo sentendo
un impulso irresistibile a fare ciò che sentiamo sia giusto fare – sarà
perfettamente adattato alla vita sociale, al punto che le leggi e le sanzioni
non saranno più necessarie.
Va sottolineato però che, tra la
gente che si trova ancora in uno stato molto basso di civilizzazione, noi
possiamo vedere un qualche genere di avvicinamento a tale stato di perfezione
sociale. In Sudamerica e in Oriente ho vissuto in comunità selvagge che non
hanno leggi e nemmeno tribunali ma nelle quali viene pienamente espresso il
senso condiviso di società. Ciascuno rispetta scrupolosamente i diritti dei
propri compagni e succede assai raramente che tali diritti vengano infranti. In
queste comunità esiste una quasi totale parità tra individui. Non ci sono
quelle grandi differenze di istruzione o di ignoranza, di ricchezza e povertà, o tra padroni e servi, che sono il prodotto della nostra civilizzazione. Non c’è
quell’ampia suddivisione del lavoro che, a mano a mano che la ricchezza
aumenta, produce conflitti di interessi. Non c’è quella dura competizione e
quella lotta per l’esistenza (o per la ricchezza) che viene inevitabilmente a
crearsi nelle regioni civilizzate in cui la popolazione si addensa. Tra queste
popolazioni selvagge non esistono grandi crimini e i piccoli reati vengono
puntualmente repressi in parte a causa del sentire comune ma soprattutto in
virtù di un naturale senso di giustizia e di rispetto per i diritti altrui che
sembra essere, in qualche modo, inerente ad ogni razza umana.
Rispetto a queste popolazioni
selvagge, noi siamo progrediti enormemente per ciò che riguarda le capacità intellettuali e, allo stesso modo, per ciò che riguarda gli aspetti morali. Ma ciò è vero solo per quelle classi i cui bisogni possono essere facilmente soddisfatti e tra le quali le opinioni e i diritti degli altri sono pienamente rispettati. Questo è così vero che è stato possibile estendere enormemente la sfera dei diritti includendoli tutti sotto l'ampio concetto di fratellanza umana. Ma va detto, però, che la gran massa della nostra popolazione non è affatto progredita oltre i codici morali dei selvaggi, anzi, in molte occasioni è ben al di sotto di questi. La carenza di moralità è la grande vergogna della moderna civilizzazione, ed è il vero freno ad un autentico progresso. Durante l’ultimo secolo, e specialmente durante gli ultimi trent’anni, i risultati che abbiamo ottenuto sono stati più rapidi degli effettivi benefici di cui abbiamo potuto godere. La nostra capacità di governare le forze della natura ha portato a una rapida crescita della popolazione e a grandi accumuli di ricchezze, ma questi risultati hanno portato con sé una tale quantità di povertà e di crimini e una tale quantità di passioni e di sordidi pensieri che il livello mentale e morale della popolazione si è abbassato e i benefici non controbilanciano i cattivi effetti. Confrontato con gli enormi progressi nelle scienze fisiche e con le loro applicazioni pratiche, il nostro sistema di governo
e di amministrazione della giustizia, così come l’intera organizzazione sociale
e la dimensione morale, rimane ad un livello pressoché barbarico.
Dobbiamo riconoscere il fatto che
la ricchezza, la conoscenza e la cultura di pochi non costituisce di per sé
civilizzazione e non ci porta, di per sé, verso un “perfetto stato sociale”. Il
nostro grande sistema produttivo, il nostro gigantesco commercio, le nostre
città sovrappopolate, sostengono e producono una quantità di povertà e di
crimine che non s’era mai vista prima … Il nostro totale disinteresse per lo sviluppo delle relazioni simpatetiche fra le persone e per lo sviluppo delle facoltà morali insite
nella nostra natura umana, impedendo a queste virtù di penetrare maggiormente
nella nostra legislazione, nelle dinamiche dei commerci e nell’organizzazione
sociale, ci ha impedito, considerando l’intera nostra comunità, di realizzare
una reale e concreta superiorità rispetto alle migliori espressioni dei
selvaggi … [In definitiva] noi ci troviamo ancora in una condizione di barbarie.
Questa è la lezione che ho ricavato dalle osservazioni presso le popolazioni non
civilizzate.
Da: The Malay Archipelago, pp. 594-598 (edizione Mac Millan, 1872).