Nel post precedente s’è parlato dello scopo dell’agire scientifico, di Weltanschauung (visione del mondo), di scienze dure e molli. Ci si è domandati in quale rapporto queste cose stiano con il metodo scientifico e si è iniziato un percorso ricognitivo per comprendere meglio in che cosa consista il metodo scientifico e se questo sia effettivamente lo strumento che consente di discriminare tra ciò che è scienza e ciò che non lo è.
Alla fine del precedente post s’era parlato del metodo
induttivo e s’era constatato – con la storiella del tacchino induttivista – che il metodo
principe dell’agire scientifico ha anch’esso i suoi limiti. Qui si riprende l'analisi di quello che, con termine generico, si chiama Metodo Scientifico.
Sul METODO SCIENTIFICO (parte II)
Nelle scienze, altro metodo
principe è il metodo deduttivo.
I filosofi e gli epistemologi (i
filosofi della scienza) sono soliti contrapporre – come se si trattasse di una
competizione – il metodo deduttivo e il metodo induttivo, come se uno fosse l’antagonista,
l’opposto, il nemico dell’altro. Tale contrapposizione ideologica si ritrova
anche nel modo con cui tali metodi vengono generalmente descritti. Nel metodo
induttivo, si dice, il ragionamento va “dal particolare al generale”, mentre nel metodo deduttivo il
ragionamento “va dal generale al
particolare”. Chi fa scienza non si appassiona alle contrapposizioni
filosofiche e terminologiche e, badando al sodo, scivola insensibilmente da un
metodo all’altro, usandoli entrambi in maniera sinergica. In che cosa consista
il metodo deduttivo è presto detto.
Il prototipo semplificato del metodo
deduttivo è il già citato classico sillogismo in cui a partire da due assunti
di carattere generale, per esempio: a) i
frutti maturi che stanno sui rami, prima o poi cadono a terra e b) tutte le mele maturano sui rami, è
possibile trarre una conclusione particolare, per esempio, c) questa mela matura, prima o poi cadrà dal
ramo. Se il ragionamento si limita alla pura logica, ovvero se il
ragionamento non implica sperimentazioni o verifiche fattuali ma si limita a
conclusioni teoriche tratte dalla pura consequenzialità delle
asserzioni, allora questo non può essere considerato un metodo scientifico ma un
puro sillogismo. Ovviamente, la logica non esclude la scienza e la
scienza non esclude la logica. Anzi, quando si pongono ipotesi, la logica è
essenziale. Il ragionamento deduttivo
diventa un metodo scientifico quando ad esso si associano procedure sperimentali atte a verificare la veridicità degli assunti e/o delle conclusioni dedotte logicamente. Quanto all'esempio sopra riportato, la
presunta universalità e veridicità degli assunti può essere sostenuta da un
largo numero di osservazioni sui tempi di maturazione dei frutti, sulla effettiva caduta
dei frutti maturi e sulla relazione tra il grado di maturazione e la caduta a
terra dei frutti medesimi. La veridicità della previsione (o della conclusione logica)
può essere dimostrata dalla registrazione dei dati riguardanti la maturazione e
l’effettiva caduta della mela. Poiché, tuttavia, non tutti i frutti e non tutte
le mele del mondo possono essere tenute sotto osservazione, è evidente che
l’universalità del fenomeno è solamente presunta. Inoltre, potrà succedere che
qualcuno a cui piacciono le mele acerbe, passando di lì stacchi la mela e se la
mangi prima che questa maturi e si stacchi dal ramo. La situazione del tacchino
induttivista si può ripetere anche per il ragionamento deduttivo
che riguarda la mela. Cosa significa ciò per il metodo deduttivo? Significa che
se la mela non cade, la teoria non può essere confermata. E se la mela cade? Se
i fatti confermano che la mela cade, questi fatti NON dimostrano con certezza assoluta che la teoria sia stata
confermata ma solo che la teoria non è
stata smentita dai fatti medesimi.
Il metodo scientifico abbina il
metodo induttivo a quello deduttivo in un loop di ipotesi, esperimenti,
verifiche, conferme e nuove ipotesi. Un loop che richiama metaforicamente la funzione della “vite senza fine”
di Leonardo da Vinci, uno strumento che consente di
procedere all’infinito da un’ipotesi alla successiva, attraverso le necessarie
conferme e smentite.
La leonardesca vite senza fine |
Questo non garantisce la
perfezione del risultato. Non consente nemmeno di conoscere il “vero”. È un
approccio che consente di fare progressi e di limitare l’errore che, però, può
nascondersi in innumerevoli dettagli.
Il metodo scientifico riconosce
all’errore un fondamentale valore euristico: ciò significa che la scienza tiene in conto l’errore, “metodologicamente”. L’errore e l’approssimazione sono elementi
costitutivi della scienza e lo scienziato sa che uno dei compiti è proprio
quello di stanare l’errore e di correggerlo con uno di minore entità. Questo,
in fondo, non è altro che il principio di falsificazione (o principio della confutabilità) proposto da Karl Popper: la scienza non può mai
essere certa di dimostrare qualcosa ma può esercitare il suo potere confutando di volta in volta le teorie che contengono errori, cercando di
correggerle. Il principio della confutabilità, così come s’era detto per il metodo, può essere considerato
uno strumento e, insieme, uno stato d’animo o un habitus mentale.
L’esperimento
(l’osservazione critica, governata e misurata del fenomeno) è una componente
essenziale del metodo scientifico. L’esperimento (eventualmente anche
l’esperimento mentale) è il braccio armato che consente di sottrarre il
ragionamento logico-ipotetico al dominio della metafisica e di associarlo
inscindibilmente all’approccio induttivo che tende a cercare le regole generali
che governano o descrivono il fenomeno. L’esperimento consente di inserire
nell’ambito delle esperienze empiriche (concrete, verificate, fattuali) anche
le cosiddette scienze teoriche, perché ogni teoria richiede una qualche
dimostrazione, non foss’altro per non essere falsificata o sconfessata (e se
così fosse, per poter essere sostituita da una meno falsificabile).
L’esperimento consente di rendere “scientifico” il procedimento
ipotetico-deduttivo che nasce come procedimento di natura esclusivamente
logica.
L’esperimento non è
semplice osservazione e misurazione dei fatti che riguardano un fenomeno,
un’ipotesi, una teoria. L’esperimento è un processo mentale
piuttosto articolato. Innanzitutto è necessario concettualizzare il fenomeno (o
l’ipotesi) che si intende verificare: la concettualizzazione ha lo scopo di
anticipare e prevedere caratteristiche, modalità, varianti e conseguenze
misurabili di ciò che si intendere mettere sperimentalmente sotto osservazione.
La concettualizzazione serve anche a individuare, e in qualche modo ad isolare,
alcuni specifici elementi (ritenuti cruciali) da osservare, da testare in modo
particolare e su cui effettuare le misurazioni. Già di per sé, questo momento concettuale
dell’esperimento introduce variazioni sperimentali al fenomeno o alla
teoria generale perché impone limiti artificiosi e circoscrive l’osservazione
ad alcuni specifici elementi. La concettualizzazione comprende le osservazioni
preliminari del fenomeno; la raccolta delle informazioni ritenute pertinenti e
rilevanti; la formulazione di ipotesi circoscritte agli specifici elementi da
sottoporre a verifica sperimentale; l’individuazione – all’interno delle
verifiche sperimentali che si eseguiranno – delle conseguenze sul fenomeno che
si intendono osservare, misurare, confrontare; e infine la definizione dei
parametri da misurare, dei tempi e dei modi con cui effettuare le misurazioni.
Alla fase concettuale
dell’esperimento segue la messa a punto delle condizioni sperimentali vere e proprie: la messa
in opera dei dispositivi operativi, tecnici e tecnologici di supporto
all’esperimento, la realizzazione di un numero di osservazioni/esperimenti
congrui con le ipotesi o gli elementi da verificare, l’analisi dei risultati e
delle misurazioni effettuate nel corso dell’esperimento, la conferma o la
confutazione delle ipotesi che si volevano valutare e la riformulazione di
nuove ipotesi e/o di nuovi esperimenti. Quando si parla di esperimento, si
parla sostanzialmente di tutto ciò e, a volte, tutto ciò è particolarmente
complicato, sia da concettualizzare sia da realizzare empiricamente.
Benché talora qualche giornalista
o qualche sprovveduto divulgatore parli di esperimento “conclusivo” – con ciò
intendendo che quell’esperimento comprova una certa teoria una volta per tutte
– il termine conclusivo non si addice allo spirito più profondo
dell’esperimento scientifico se non nel caso in cui i risultati
dell’esperimento decretino una volta per tutte la falsificazione di una certa teoria. Ci sono certamente esperimenti “cruciali” (uno dei più recenti è stato
quello che ha confermato l’esistenza del bosone
di Higgs, fino ad allora postulato su basi teoriche) i quali sono in grado
di sostenere fortemente un’ipotesi ma mai di verificarla in modo definitivo,
anche perché la scienza non considera mai del tutto definitiva e non ulteriormente
migliorabile nessuna delle sue affermazioni.
L’esperimento si colloca obbligatoriamente in una visione
“riduzionistica” della ricerca scientifica. Si parla qui del riduzionismo metodologico,
che è uno degli approcci (operativi e mentali) tipici del fare scienza. Fondamentalmente, l’idea che il
riduzionismo metodologico persegue è di studiare l’intero (troppo complesso per essere analizzato nel suo insieme) riducendolo in frammenti più piccoli e più
semplici, presumendo: a) che il piccolo sia più semplice dell’intero; b) che l’essenza dell’intero possa essere ottenuta dalla ricongiunzione di tutte le
informazioni ottenute sui singoli frammenti. Entrambe le presunzioni, pur verosimili, sono lontane dall’essere vere: il “piccolo” non è necessariamente più
semplice dell’intero e la complessità dell’intero emerge dal suo essere
“intero” e non dalla sommatoria delle sue frazioni. Detto ciò per amore
della precisione, queste due presunzioni, pur essendo relativamente grossolane,
nulla tolgono al fatto che il riduzionismo metodologico si sia
sempre rivelato uno strumento assai utile per aggiungere nuove conoscenze all’insieme delle
vecchie conoscenze. Uno strumento con dei limiti non necessariamente dev’essere
considerato uno strumento inutile o fallace. Nelle attività
economico-produttive esiste un analogo di quello che per le scienze è il
riduzionismo metodologico. Si tratta del taylorismo, dal nome di Frederick Taylor che, a metà ottocento
in piena rivoluzione industriale, scoprì che la produzione industriale poteva
aumentare se le attività complesse venivano suddivise in attività più semplici
assegnate, ripetitivamente, ai singoli operai. In parole povere, se un gruppo
di operai eseguiva, dall’inizio alla fine, un’attività complessa, la produzione
era inferiore a quella dello stesso gruppo di operai se a ciascuno di essi era
assegnata una sola attività semplice da eseguire in modo ripetitivo. La catena
di montaggio è più produttiva (ma non necessariamente di migliore qualità) dell’attività “olistica”. I vantaggi produttivi
sono evidenti se ci si può permettere di perdere la visione d’insieme. Se
questo è accettabile in attività produttive ove la visione d’insieme compete ai
piani alti dell’organizzazione, nelle
scienze, perdere la visione d’insieme
o di quegli aspetti cruciali da cui emergono le funzioni “superiori” dell'intero, può essere un serio
limite allo sviluppo della conoscenza.
Ecco spiegata la relazione tra esperimento e riduzionismo metodologico. L’esperimento, essendo sempre limitato a qualche aspetto empirico dei fenomeni e delle teorie sotto indagine, ha senso solo all’interno del quadro di riferimento del riduzionismo metodologico. Questo, a sua volta, è contenuto nel paradigma meccanicista, quel modo di vedere molto caro alle scienze in cui l’universo è assimilato metaforicamente a una macchina e nel quale le cause e gli effetti sono legati in maniera deterministica.
Ecco spiegata la relazione tra esperimento e riduzionismo metodologico. L’esperimento, essendo sempre limitato a qualche aspetto empirico dei fenomeni e delle teorie sotto indagine, ha senso solo all’interno del quadro di riferimento del riduzionismo metodologico. Questo, a sua volta, è contenuto nel paradigma meccanicista, quel modo di vedere molto caro alle scienze in cui l’universo è assimilato metaforicamente a una macchina e nel quale le cause e gli effetti sono legati in maniera deterministica.
Tutto ciò, con i suoi evidenti
limiti, è sempre stato e rimane un modo proficuo per analizzare e per spiegare
i fenomeni naturali.
L’esperimento presuppone
implicitamente la misurazione. La misurazione (il peso, la velocità, la massa, la
grandezza, ecc., ecc.) non è solo una procedura tecnica per cercare, per quanto
possibile e ove possibile, di tradurre
in “fatti” alcune caratteristiche di un fenomeno. La misurazione è un atteggiamento mentale: è un tradurre elementi fenomenici compositi in
un linguaggio numerico che consenta confronti e manipolazioni quantitative
(dati) di aspetti qualitativi. L’attitudine
alla misurazione (che include l’attitudine al confronto, alla verifica e, quindi,
anche alla critica circostanziata) è un elemento tipico dell’agire scientifico.
Questa attitudine ha molto a che fare con la “chiave misteriosa” che Cartesio
affermava essersi presentata a lui in forma di visione nella notte del 10
novembre 1619. Questa chiave avrebbe consentito – in un’ottica fortemente
orientata al monismo metodologico –
di riunire con la potenza oggettiva della misurazione, tutte le scienze in
un’unica scienza. La chiave era, appunto, l’applicazione della matematica alla
geometria e, in maniera più generale, alle procedure per indagare e spiegare i fenomeni
naturali. Su questa stessa falsariga, con un certo trionfalismo Lagrange affermava: “Fino a quando l’algebra e la geometria
avanzarono su sentieri separati il loro progresso fu lento e le loro
applicazioni limitate. Ma quando queste due scienze unirono le loro forze, esse
trassero l’una dall’altra fresca vitalità e da allora in poi marciarono a
rapidi passi verso la perfezione” (1795).
Oltre a quanto detto fin qui, il cosiddetto metodo scientifico include altri requisiti. Uno di questi, di nuovo, potrebbe essere catalogato nella categoria della “predisposizioni d’animo”. Si tratta della predisposizione a condividere ciò che si fa e ciò che si ottiene con gli altri. In altre parole, una predisposizione a non chiudersi nel segreto del proprio gabinetto di studio. Intendiamoci: non che non si possa fare una scienza “segreta”: in ambito militare non si fa altro e, negli ambiti in cui brevettare per primi è di importanza vitale, anche qui si fa scienza in modo molto, molto riservato. Tuttavia, consuetudine vorrebbe che la scienza, ovvero l’agire dello scienziato, condivida saperi, procedure, e risultati. Tale condivisione servirebbe per mantenere le conoscenze scientifiche nei limiti dell’oggettività. “Oggettività” è un termine impegnativo e sdrucciolevole perché presuppone tutta una serie di impliciti assunti filosofici (realtà, verità, assolutezza, ecc.) su cui ci sarebbe molto da discutere. Escluderò pertanto dal mio ragionare il termine oggettività anche se questo termine si trova assai spesso associato alla dizione “metodo scientifico”. Oggettività a parte, la condivisione e lo spirito con cui si accetta (e lo si desidera) di condividere il proprio sapere e il proprio agire con gli antri è una componente metodologica costitutiva del fare scienza. D’altra parte, fare scienza approfittando di ciò che gli altri condividono con noi e negando agli altri i nostri risultati e le nostre conoscenze, sarebbe un modo alquanto disdicevole di porsi nella comunità scientifica. Purtroppo sarebbe illusorio attendersi una piena e totale condivisione perché assai spesso chi fa scienza (termine allargato in cui includo scienziati professionisti, università, investitori) non desidera spianare del tutto il terreno ai concorrenti, col rischio che questi arrivino per primi al risultato eccellente o al brevetto milionario. Bisogna trovare un compromesso umanamente accettabile. Si sa, per esempio, che Galileo e Keplero corrispondevano e si scambiavano un certo numero di informazioni. Tra i due, però, Galileo faceva un po’ il difficile e talvolta, per mettere in difficoltà Keplero, per rallentarlo (e anche per divertirsi alle sue spalle), condivideva con lui certi risultati ma glieli forniva in forma enigmatica, di sciarada o di indovinello. La condivisione è importante perché la scienza basa molta parte della sua autorevolezza sulla possibilità della contraddizione e della falsificabilità oltre che, naturalmente, della riproducibilità dei risultati. La scienza è una società aperta in cui si condivide il sapere sia per renderlo disponibile sia per renderlo verificabile: questo modo di fare aumenta esponenzialmente la possibilità di crescita della conoscenza rispetto a un’ipotetica scienza chiusa e segreta. La condivisione è quindi una caratteristica fondante del fare scienza e, quindi, del metodo scientifico.