A fronte di una medicina sempre più tecnologica che acquisisce forme spesso spersonalizzate, si assiste per fortuna a un movimento di pensiero che rilancia la sensibilità per gli aspetti prettamente umani che attengono all’applicazione della prassi medica. Stimolato da questo risveglio e da un articolo apparso recentemente sulla rivista Transfusion, affronto qui un tema che, pur riferendosi a un’area superspecialistica, contiene spunti di riflessione applicabili a molti ambiti in cui si realizza l’incontro tra il progresso delle scienze e l’elemento umano. Il mio scopo qui, è “ripensare all’ethos” che riguarda questo punto d’incontro. Facendo ciò mi richiamo idealmente al filosofo Giulio Preti (1911-1972) il quale sosteneva che compito del filosofo è agire “per modificare l’ethos” di una data civiltà.
L’articolo
che ha sollecitato la mia attenzione è stato pubblicato pochi giorni or sono da due solidi
esperti di Medicina Trasfusionale, l’australiano Albert Farrugia e lo
statunitense Douglas Starr. In italiano il titolo dell’articolo suonerebbe: Dove va la trasfusione - L’evoluzione di un paradigma e il suo logico sviluppo.
L’articolo ha risvegliato in me memorie autobiografiche perché io stesso avevo contribuito alla discussione circa l’evoluzione della medicina trasfusionale con un articolo intitolato Evoluzione della medicina trasfusionale come disciplina autonoma, pubblicato vent’anni
fa e che aveva fatto seguito a un mio intervento al 24° Congresso della Società Internazionale di Medicina Trasfusionale tenutosi
nei pressi di Tokio nel 1996.
Prima
di entrare nel merito della questione, due parole introduttive sulla nascita e
sullo sviluppo della Medicina Trasfusionale. Senza voler considerare i mitici
quanto eroici e scriteriati inizi, l’attività trasfusionale ha cominciato a
configurarsi come disciplina scientifica solo ai primi del ‘900 con la
scoperta dei gruppi sanguigni e con la messa a punto di soluzioni
anticoagulanti che permettevano la conservazione del sangue allo stato liquido.
Dalla sua introduzione – prima sui campi di battaglia della Grande Guerra e poi nelle sale operatorie degli ospedali – la trasfusione del sangue è stata una prassi che ha contribuito a salvare molte centinaia di migliaia di vite umane. Fino a primi anni cinquanta, i contenitori del sangue da trasfondere erano costituiti da flaconi di vetro; con la guerra di Corea furono introdotte le sacche di plastica (figura 1). Queste hanno consentito di scomporre il sangue donato nei suoi tre maggiori costituenti (globuli rossi, piastrine e plasma), ognuno dei quali ha proprietà terapeutiche diverse. La novità introdotta dalla “lavorabilità” del sangue ha contribuito a salvare ancora più vite. Da queste poche informazioni, si capisce che fino a questo punto vi è stata una sostanziale convergenza tra gli obiettivi del progresso scientifico riguardante la prassi trasfusionale e il precipuo interesse dei pazienti, senza che tra i due sussistessero motivi di conflitto etico, con l’unica rilevante eccezione di alcune resistenze di tipo religioso che qui non tratto.
Figura 1: a sinistra, i vecchi flaconi di vetro; a destra, le sacche di plastica introdotte nei primi anni cinquanta del novecento |
Le
potenzialità terapeutiche delle pratiche trasfusionali hanno fatto sì che, per
rendere universale l’accesso a queste terapie, fosse necessario mettere in atto
un’elaborata gestione di tutte le fasi riguardanti la prassi trasfusionale: dalla
raccolta del sangue, alla sua “lavorazione”, alla somministrazione ai pazienti di
componenti ematici dalle proprietà terapeutiche standardizzate. Nelle nazioni dalle
economie più sviluppate, ciò ha comportato la creazione di strutture
organizzative e operative scientificamente avanzate e capaci di coprire
capillarmente le esigenze dell’intera popolazione. Questo genere di
organizzazione è molto onerosa: per garantire standard di qualità elevati essa si
deve necessariamente avvalere di competenze specialistiche e di strutture
produttive di tipo industriale o paraindustriale. I paesi economicamente meno
fortunati non si possono permettere questo genere di organizzazione, così come
non possono permettersi molti altri generi di organizzazioni socialmente
utili. Questa forbice economica porta con sé problemi pratici, sociali ed etici
di difficile soluzione e che non possono essere discussi in questa sede. Qui, devo limitarmi a osservare ciò che succede nei paesi più fortunati dove
l’evoluzione tecnica, scientifica e organizzativa della prassi trasfusionale ha
certamente mutato i rapporti emotivi e le dinamiche sociali che riguardano il
binomio donazione-trasfusione. La riorganizzazione della prassi trasfusionale
ha fatto sì che l’antico atto di solidarietà della donazione del sangue che
raggiungeva direttamente il paziente bisognoso si trasformasse in un’organizzazione
clinico-farmaceutica dai connotati decisamente “industriali” (figura 2).
È evidente che quando una procedura acquisisce i connotati dell’industrializzazione
globalizzata, per quanto meritori possano essere i suoi intenti, essa può diventare
terreno di business, di profit e di esercizio del potere, con ciò esponendosi al
rischio che i vari momenti riguardanti la gestione, le priorità e le scelte strategiche
industriali, possano entrare in conflitto etico con l’interesse dei pazienti, questi visti eventualmente come l'ultimo elemento di una catena produttiva.
Figura 2: rappresentazione di un cambiamento. A sinistra l'atto di trasfondere in un ospedale da campo; a destra, una struttura industriale per la scomposizione del plasma |
La
riorganizzazione paraindustriale della prassi trasfusionale ha provocato lo sviluppo
di un’economia duale, vale a dire la presenza contemporanea di due diverse
economie con obiettivi economici, sociali, politici e strategici differenti. Da
una parte c’è una “economia della donazione”, con lo sviluppo di reti e di organizzazioni
di donatori dagli interessi e dai valori sociali, politici ed economici tipici delle
organizzazioni del terzo settore. Dall’altra, c’è una “economia della produzione”,
che riguarda il prodotto terapeutico, in modo particolare quello di
preparazione industriale. Poiché queste due economie sono portatrici di valori
e di obiettivi talora discrepanti, come si può intervenire – sia normativamente
che praticamente – per limitare sconfinamenti verso prassi eticamente
discutibili? Nell’articolo di Farrugia e Starr si suggerisce di adottare una prassi
paziente-centrica, anteponendo – sempre e obbligatoriamente –
l’interesse precipuo del paziente a ogni singola decisione. Difficile non
essere d’accordo con questo proposito: molto più difficile metterlo in pratica,
anche perché è assai complicato stabilire – e definire ex-ante – in che cosa consiste l’interesse precipuo del paziente. Basti
pensare, a puro titolo esemplificativo, al semplice fatto che le cosiddette Linee
Guida per la Buona Pratica Clinica forniscono modalità operative per
garantire, a fronte di determinante situazioni cliniche, uno standard di
corretto comportamento clinico ma tale standard potrebbe non essere la prassi
ideale per quello specifico e particolare paziente in uno specifico e
particolare momento.
Nella
prassi trasfusionale, l’avvento dell’AIDS
fu una tragedia ma anche un punto di rottura: un discrimine tra un prima e un
poi. L’avvento dell’AIDS e
la scoperta dell’HIV moltiplicarono
l’impegno – scientifico, diagnostico, organizzativo – per prevenire le
infezioni e rendere sicura la trasfusione. La profusione di sforzi in questo
senso avvenne certamente nell’interesse precipuo del paziente
ma non ci si può nascondere che la trasmissione dell’HIV attraverso il sangue metteva in discussione l’intero sistema
delle pratiche trasfusionali e la sua stessa sopravvivenza come prassi
terapeutica. Si veniva quindi a rinforzare la dualità di un sistema che vedeva,
in questo caso, una convergenza dell’interesse dei pazienti con quelli dell’industria
farmaceutica: la salute dei pazienti diveniva sempre più dipendente dai
presidi diagnostici messi a disposizione delle aziende farmaceutiche e dai
sistemi di produzione degli emocomponenti che andavano ad allinearsi agli
standard di produzione di tipo industriale. Da parte sua, l’apparato politico e
di controllo suggellava con cogenti norme legislative i mutamenti organizzativi
e gestionali miranti al controllo e alla sicurezza della prassi trasfusionale privilegiando,
sul versante produttivo, un modello di lavorazione industriale o
paraindustriale. Una conseguenza di questa trasformazione è stata quella di operare
una profonda frattura (fisica, sostanziale e anche della sfera psicologica e
percettiva) tra i due elementi umani del binomio donatore-paziente (figura 3):
chi offre le proprie vene da cui attingere la materia prima vitale che gli appartiene e chi fruisce di
quel bene sono stati separati da un complesso apparato di intermediazione,
quello della produzione degli emocomponenti.
Figura 3: un vecchia illustrazione "tecnica" che trasfigura la relazione "emotiva" tra l'atto di donare il sangue e quello di accogliere nel proprio corpo il fluido vitale donato |
In una società sempre più articolata, l’atto solidale personale (e la donazione di sangue continua a esserlo) tende a essere sempre meno diretto e sempre più mediato: l’attore e il fruitore dell’atto solidale si allontanano. In questa separazione ci sono anche aspetti positivi perché una
società ben organizzata è in grado di mettere in campo – per ogni settore
produttivo o assistenziale – specialisti e professionisti che, molto meglio di ciascuno di noi, sono in
grado di trasformare in atto efficace e concreto quello che per noi può
essere semplicemente un moto del cuore. Affidare il proprio gesto a uno
specialista che funge da intermediario fa sì, però, che chi dona possa finire col
perdere ogni controllo (e anche ogni ritorno emotivo) sul destino finale del
proprio dono. Oltre che struttura dispensatrice di uno specifico servizio, la
Medicina Trasfusionale è diventata una disciplina scientifica autonoma non solo
in virtù della specializzazione che la prassi trasfusionale richiede ma anche per
colmare il gap di controllo tra donazione e trasfusione. Questa autonomia,
oltre agli innumerevoli ed enormi vantaggi di cui è portatrice, porta però con
sé anche gli inevitabili rischi connaturati a ogni grande organizzazione
indipendente: vale a dire la possibilità che vengano messi in atto comportamenti e
prassi più favorevoli agli immediati interessi della struttura erogatrice che
non agli interessi specifici del paziente. L’auspicio (e la richiesta) di
Farrugia e Starr è che l’adozione di una rigorosa politica paziente-centrica
possa essere strumento efficace per prevenire i motivi di conflitto etico tra
gli interessi dei diversi attori della catena trasfusionale. Va tenuto presente
che la messa in atto di politiche paziente-centriche richiede un’organizzazione
ad hoc e che la realizzazione
concreta di una prassi paziente-centrica è estremamente impegnativa per gli
operatori cui è richiesto il mantenimento continuativo di alti livelli di concentrazione, di autocontrollo e di autoverifica. Tener conto di questi aspetti per nulla secondari è compito ineludibile di chi si assume l'onere e la responsabilità dell'organizzazione dei servizi sanitari.
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